L'editoriale dell'elefantino
La politica non riesce a fare i conti con Calenda
Il leader di Azione, tradito da un fondo di moralismo valdese, fatica a essere assorbito come personaggio. E’ un suo problema, ma anche un problema della politica
Che gli vuoi dire a Calenda, Carlo Calenda? Ignora, strano, il peccato originale. Non esiste l’eden delle idee pure. Non esiste il comportamento virtuoso astratto. I valori sono varianti, anche i suoi, che lui lo percepisca, che lo capisca o no. Cattiveria e disdegno, irriverenza e furbizia, ipocrisia e mendacio, cinismo e rapidità di esecuzione, scippo e furto con destrezza, segreti e chiasso, tutti i difetti del mondo morale sono parte integrante della politica dei partiti. Calenda è il ritratto della persona a modo, irascibile spesso per buone ragioni, incline al ragionamento, alla pedagogia politica, al gin tonic con la società civile, ma sceglie i tempi e i modi dell’agire in quel modo razionalmente sconclusionato, cinguettante, che gl’infoltisce la schiera dei nemici, esterni e interni, e lo porta regolarmente a sbattere.
Spiace sul serio. Una volta garantito che Gualtieri avrebbe vinto il ballottaggio con un imperatore radiofonico in toga, personalità un poco in disuso, meritò anche il voto dei disillusi, dei marpioni, dei lanzichenecchi, lo meritò per come si era preparato, per come si era portato di quartiere in quartiere, per il suo immenso sforzo di fare sul serio in una città dove le cose serie si raccattano nei cassonetti di una lunga storia, la differenziata alla romana, che tuttavia funziona da sempre e forse per sempre funzionerà. Le sue fissazioni contenutistiche e di programma, peggio della malattia ma encomiabili, come l’inceneritore e il rigassificatore, lo qualificano come uomo tutto d’un pezzo, non uno da gruppo misto.
Ora perde due deputate di peso in un colpo solo. Il suo partito subisce la concorrenza mobile, imprevedibile, alla vergognosa ma efficace, di un Renzi che in alleanza con lui è sopravvissuto al disastro d’immagine. Vogliono irregimentarlo in un voto europeo prossimo in cui pesi meno di una piuma d’oca. Fanno il mestieraccio. E nessuno gli verrà in soccorso, perché si è fatto la fama del volitivo, del caratteraccio, addirittura dell’uomo di principi, la peggior fama possibile in un partito e in un gruppo parlamentare, anche piccolo, chiamato a dire, fare, disdire e rifare. Lui invece pensava di non poter reggere l’alleanza giustificata con il Pd del derelitto Enrico Letta, che gli aveva concesso una quota parte ingente della prevedibile sconfitta, e dopo i baci furono il veleno, la disdetta, il giro di valzer, l’ennesimo, con un corteggio di accanita impopolarità condivisa con l’alleato-rivale di sempre, l’uomo che avrebbe dovuto spegnere e che ora lo vuole spegnere. Tutto per tenere fermo il suo disprezzo per i grillini, poveretti, e per inseguire il sogno di un polo liberale di massa che doveva pescare nel bacino di Berlusconi e nelle praterie aperte dalle circonvoluzioni spesso grottesche del Pd senza fuoco nella pancia.
Sono schemi. La politica non è schematica. E’ questo il suo difetto, ma anche la sua virtù. Calenda è stato un ottimo uomo di governo. Poteva essere un buon sindaco. I suoi discorsi da manager della politica italiana sono evanescenti ma a loro modo aspirano al solido, galleggiano in un mare di incredulità eppure hanno o avrebbero un senso compiuto nel mondo arabescato e nel teatrino della politica. Calenda è tradito da un fondo di moralismo valdese, dalla pretesa di competenza che non ha il risvolto dell’aggressività di manovra, del sentimento epidermico del momento, del che cosa si possa e non si possa fare con le buone progettualità. Che la politica italiana non riesca minimamente a fare i conti con lui, a assorbirlo come personaggio e leader, è un suo problema, e anche un problema della politica.