unire i puntini
I primi conti che non tornano al governo Meloni
Critiche di Bankitalia. Paure della Commissione. Rilievi della Corte dei conti. Timori delle agenzie di rating. Richiami della Ragioneria. Ecco i primi campanelli d’allarme sul futuro dell'esecutivo. Il Quirinale li ascolta. Come orientarsi
La domanda può sembrare brutale ma può essere utile a unire i fili del discorso e capire il percorso che si presenta oggi di fronte all’Italia. Brutalmente, eccoci qui: ma il Quirinale è davvero preoccupato per il percorso di marcia imboccato dal governo Meloni? Elementi sufficienti e ufficiali per rispondere di “sì” a questa domanda non esistono, non ci sono. E a dire il vero, nei primi sette mesi di governo, il rapporto tra il capo dello stato e il capo del governo è apparso essere una delle novità più rilevanti del nuovo quadro politico (la scelta di sotterrare il presidenzialismo, per Meloni, ha coinciso anche con una scelta strategica: tutelare l’attuale capo dello stato).
I temi che dividono Mattarella e Meloni ci sono, e sono noti, e non è un mistero che il capo dello stato, rispetto al capo del governo, abbia una sensibilità diversa su alcuni dossier. Per esempio, sul tema della ratifica del Mes (tema sul quale è probabile che intervenga a fine maggio il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco). Per esempio, sul tema delle concessioni balneari (a febbraio, il presidente della Repubblica ha firmato con riserva il disegno di legge “Milleproroghe”, denunciando i “molteplici profili critici”, con riferimento particolare alla proroga delle concessioni demaniali). Per esempio, sul tema dei rapporti con la Francia (sette mesi dopo l’incarico ricevuto da Mattarella, Meloni, pur avendo ricevuto un invito formale dall’Eliseo, non ha ancora organizzato un incontro con il capo dello stato francese).
Nessuno di questi temi è sufficientemente dirompente però per far sospettare che vi sia una qualche incrinatura reale nei rapporti tra il capo dello stato e il capo del governo. Ma se si sceglie di mettere in fila alcuni fatti registrati nelle ultime settimane si capirà che forse la preoccupazione del Quirinale per il futuro del governo è probabilmente una fake news, d’accordo, ma non è invece una fake news notare la presenza di un numero molto elevato di preoccupazioni arrivato negli ultimi mesi all’orecchio dei consiglieri del presidente della Repubblica.
Alcune preoccupazioni sono note, e alla luce del sole. Altre sono meno note, ma si possono illuminare. Tra le preoccupazioni note vi sono, per esempio, i rilievi mossi due giorni fa dalla Banca d’Italia al governo, sul tema della riforma fiscale.
Il capo del servizio Assistenza e consulenza fiscale della Banca d’Italia, Giacomo Ricotti, in un’audizione alla Camera ha affermato che molti degli interventi prefigurati sul fronte fiscale dal governo “comporteranno perdite di gettito” e ha aggiunto che l’idea del governo di ricorrere alla potatura delle tax expenditure per trovare risorse non convince, perché “non è chiaro né quali incentivi fiscali saranno oggetto della razionalizzazione, né quindi l’entità delle risorse che potranno essere recuperate”. Il giorno prima, lo ricorderete, quattro articoli del decreto “Bollette” sono stati bocciati dalla Ragioneria dello stato per problemi di coperture. A fine aprile, ancora, l’agenzia di rating S&P ha fatto sapere di voler valutare “attentamente i conti pubblici dell’Italia” (all’ora in cui questo giornale va in stampa non è ancora nota la decisione presa da Moody’s sul rating italiano). Qualche giorno prima, Goldman Sachs ha lanciato un allarme, prevedendo un aumento dello spread Btp/Bund in Italia da 189 a 235 punti entro la fine del 2023. Ai primi di aprile, un report di Ambrosetti ha notato che, allo stato attuale, solo l’1 per cento dei progetti è stato completato. Il 20 marzo, il commissario all’Economia, Paolo Gentiloni, ha invitato il governo italiano a concentrarsi sull’attuazione del Pnrr, che è un “problema di grande urgenza”, e ha suggerito di lasciare perdere “questioni secondarie” come il Ponte sullo Stretto di Messina o la flat tax. A inizio marzo, la Corte dei conti, nella relazione semestrale al Parlamento sullo stato di attuazione del Piano, ha rilevato che “il cronoprogramma finanziario e il complesso delle risorse per nuovi progetti del Pnrr portano a evidenziare come oltre la metà delle misure interessate dai flussi mostri ritardi o sia ancora in una fase sostanzialmente iniziale dei progetti” e che il livello di attuazione finanziaria al momento è pari al 6 per cento.
Ciò che è noto, nelle prossime ore, potrebbe arricchirsi di ulteriori dettagli, come quelli che sono destinati a essere contenuti all’interno delle considerazioni finali che pronuncerà a fine mese il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che difficilmente non unirà i fili che abbiamo appena descritto. Ma accanto a ciò che è noto, è possibile dar conto anche di ciò che è meno noto. E tra i dossier meno noti ve n’è uno che coincide con un report preoccupante presentato al Quirinale da una importante banca d’affari americana. Un report che fotografa bene la condizione, o se volete il bivio, di fronte al quale si trova l’Italia. Il report promuove l’Italia di Meloni per quello che ha fatto vedere finora, sui fondamentali economici, sull’attenzione al debito, sui risultati ottenuti anche in termini di crescita e di esportazioni. Ma lo stesso report indica con chiarezza cosa può significare per l’Italia arrancare sul Pnrr e lo fa utilizzando due numeri contenuti all’interno del Documento di economia e finanza (Def) presentato il 27 aprile dal governo Meloni. Il primo numero è quello legato alla quantificazione degli investimenti generati dal Pnrr, che valgono circa due punti di pil all’anno. Il secondo numero ha a che fare con un altro numero contenuto all’interno del Def. Nel Def, nota il report, si dice a chiare lettere che già nel 2025 il debito rispetto al pil inizierà a rialzarsi se la crescita nominale sarà solo del 3 per cento e quella reale dello 0,9 per cento. Insomma, per avere una leggerissima discesa del debito si deve mantenere una crescita nominale sopra il 3 per cento e una crescita reale sopra l’1 per cento (e bisognerà vedere se basterà all’Europa).
Il tema è chiaro. Il debito italiano è sostenibile a fronte di una crescita alta. Per avere una crescita alta occorre avere forti investimenti in Italia. E per avere forti investimenti in Italia occorre utilizzare bene i soldi del Pnrr. Il tema, come hanno ripetuto più volte i principali funzionari della Commissione europea al Quirinale, non è quanto il governo italiano voglia cambiare il Pnrr, perché il tema del cambio del Pnrr è un tema che sta riguardando molti paesi, come la Spagna, come il Portogallo, la Germania, la Finlandia, il Lussemburgo. Il problema è che fra tutti i paesi che hanno scelto di cambiare qualcosa del Pnrr l’Italia è l’unico ad aver annunciato di volerlo cambiare senza aver presentato una riga ufficiale alla Commissione europea per spiegare come cambiarlo.
E si capisce che se si mettono insieme tutti questi puntini ci sono buoni elementi per essere soddisfatti rispetto a quello che l’Italia ha fatto in questi mesi (crescita ottima, esportazioni che vanno, mercati che non borbottano). Ma ci sono altrettante buone ragioni per osservare il futuro del nostro paese con lo sguardo poco spensierato di chi sa che basta un nonnulla per passare dall’ottimismo al pessimismo e di chi sa che basta un nonnulla per essere percepiti dagli investitori internazionali e non solo da loro come un paese che anche quando ha i soldi semplicemente non sa che farsene. Gli interlocutori del Quirinale sono preoccupati. E non stupirebbe che, mettendo insieme i puntini, mettendo insieme Bankitalia, la Commissione, la Corte dei conti, le agenzie di rating, lo stesso sentimento non faccia capolino, come si dice, anche nei pensieri del capo dello stato.