qualche proposta
Riformare le istituzioni. Dialogo sui mali del paese e sui possibili rimedi
Le grandi riforme sono un tema ricorrente, e irrisolto, del dibattito politico. Ma che cosa non funziona nelle nostre istituzioni? Perché si parla tanto delle cure e poco delle malattie? Botta e risposta tra un italiano e un francese
L’intera Italia si trasforma periodicamente in un convegno collettivo sullo Stato e le sue riforme. Tutti ne discutono. C’è chi mira al presidenzialismo, chi a un neoparlamentarismo, chi teme l’uomo forte al potere, chi vuole il semipresidenzialismo. Sentiamo l’opinione di uno straniero, un francese, e di un italiano, su questa “querelle” periodica.
Francese. Perché tanto accanimento, in Italia, sulla riforma delle istituzioni? La penisola non sta meglio della Francia? Mi sembra più pacifica, nonostante l’atteggiamento “piagnone” diffuso.
Italiano. Lei dimentica i mali antichi: i governi che vanno e vengono; la burocrazia lenta e soffocante; il dualismo perdurante della società e dell’economia; l’alto ammontare del debito. Bisogna solo sapere da dove cominciare.
Francese. Potrei anche essere d’accordo, ma mi sembra che nel Paese si discuta più delle medicine che della malattia. Mi sembra che tutti brancolino nel buio. Un medico fa prima la diagnosi, poi prescrive la cura. In Italia tutti hanno una propria cura, dimenticando la diagnosi. Ad esempio, non è neppure chiaro se si vuole una riforma costituzionale o una riforma delle istituzioni, includendo anche quelle che non hanno rilievo costituzionale. Un altro esempio: chi elenca le cose che non funzionano? Un’altra domanda che non viene posta: perché riformare? Le istituzioni non dovrebbero, come ogni fatto sociale, essere sottoposte a un lento processo di innovazione, di adattamento, senza aver bisogno di questi periodici colpi d’ascia, che vengono dati con le cosiddette riforme?
Italiano. Noi italiani abbiamo bisogno di riforme perché, a differenza della Francia, l’Italia non avuto una rivoluzione. Poi, in Italia c’è sempre stata una opposizione fra riformisti e rivoluzionari. Bisogna leggere il libro di Antonio Giolitti, Lettere a Marta. Ricordi e riflessioni (Bologna, il Mulino, 1992), per rendersi conto di quanta distanza ci sia tra rivoluzionari e riformisti. La parola riforma (e quella riformista) è stata a lungo criticata o addirittura cancellata. In una parte delle forze politiche, i riformisti venivano considerati traditori.
Francese. Altra critica: l’oggetto della riforma non è mai stato sufficientemente chiaro. Una volta si parlava di riforma dello Stato, poi s’è cominciato a parlare di riforma della Costituzione. La riforma della burocrazia, che una volta era in auge, ora è caduta nel dimenticatoio. Ricordo soltanto il convegno promosso dall’Istituto Gramsci su “La riforma dello Stato”, del 1968, al quale presentarono relazioni Terracini, Perna, Barca, Spagnoli, Ingrao; vi fu anche un intervento di Amato (gli atti furono pubblicati dagli Editori Riuniti a Roma nel 1968). Poi, in Italia ci si lamenta tanto dei precari, ma il più precario di tutti è il governo della Repubblica. Ora che si parla di presidenzialismo, semipresidenzialismo, premierato. Sono pochi quelli che indicano le disfunzioni a cui con queste medicine si vuole porre riparo. Ad esempio, non penso che vi sia un problema di poteri del governo, che ne ha fin troppi, ma di durata e coesione della compagine governativa. Quindi, invece di evocare tante istituzioni straniere, non bisognerebbe stabilire anche una durata per il governo, salvo una sfiducia costruttiva? Per assicurare la coesione non basterebbe che il presidente del Consiglio dei ministri venisse posto su un piano più alto, fosse un “premier”, non un “primus inter pares”, in modo da tenere in riga la coalizione? Se si identificano i mali, non ci riesce così a trovare anche i rimedi più adatti, senza evocare stravolgimenti della carta costituzionale?
Italiano. Sarei pronto a seguirla su questo piano e avrei anche un esempio concreto, quello della sanità. Basta vedere il numero dei morti per Covid in Italia. Sono stati poco meno di quelli degli Stati Uniti d’America, che ha una popolazione tanto superiore; più di Russia e di Francia, due Paesi che hanno anch’essi una popolazione ben superiore; un terzo in più di quelli tedeschi, un Paese che ha anche esso una popolazione superiore a quella italiana. Ma un problema tira l’altro: i governi di breve durata hanno la possibilità di fare interventi di lunga durata, come quelli che sono necessari per metter mano alla sanità? E poi, per riformare la sanità bisogna avere più medici e l’alto debito non consente altre assunzioni di medici.
Francese. Questa conclusione mi sembra negata dalla realtà. Sono state annunciate assunzioni numerose nel pubblico impiego, che saranno fatte riempendo i cosiddetti organici in altri settori, invece di concentrarli nella sanità. Il ministro della Pubblica amministrazione sembra più un ministro di rappresentanza del personale pubblico che un uomo di governo impegnato nell’assicurare migliori servizi pubblici agli utenti. Sono più importanti i quasi 59 milioni di italiani utenti della Pubblica amministrazione, oppure i 3 milioni e 200 mila dipendenti della Pubblica amministrazione? Ricorda la frase di Filippo Turati, che le ferrovie non stanno lì per dare lavoro ai ferrovieri, ma per trasportare la gente? Poi, il ministro chiamato della Pubblica amministrazione conta di coprire gli organici, ma dimentica che questi sono superati, fotografano una Pubblica amministrazione prima dell’innovazione digitale, prima delle semplificazioni che lui stesso annuncia ma non realizza, e che quindi si finisce per assumere personale dove non ce n’è bisogno, mentre non se ne assume dove, invece, c’è bisogno di personale. Ma c’è di peggio. Oltre a far male all’amministrazione, queste assunzioni operate senza un chiaro criterio, che parta dai carichi di lavoro ed dai programmi di ristrutturazione e di ridisegno delle procedure, fanno male anche alla società. Sono una ingiustizia nel rapporto tra le generazioni, perché i giovani che si affacceranno l’anno prossimo o negli anni immediatamente successivi al mercato del lavoro troveranno tutti i posti occupati. Il ministro della Pubblica amministrazione dovrebbe rendersi conto che la sua preoccupazione principale dovrebbero essere gli utenti dei servizi pubblici, non quella del personale, perché questo è assunto e deve lavorare in funzione dei servizi pubblici da erogare. Non è il capo del personale pubblico, ma il tutore dell’interesse degli utenti. Il rapporto va invertito, anche perché non basta preoccuparsi di chi è alla guida, occorre anche che la macchina funzioni.
Italiano. Ritorniamo alla durata e alla coesione dell’esecutivo. Sono d’accordo che questi siano i problemi più urgenti. L’urgenza è determinata innanzitutto dal fatto che, se non vi è una durata assicurata e una coesione garantita, prevalgono le corporazioni. Un esempio è costituito dalla trasformazione, in corso da anni, della funzione legislativa. Questa è ormai assorbita dal governo. Il governo produce, in media, un decreto legge per settimana. Questa legislazione governativa soddisfa il bisogno di decisioni prese rapidamente, ma presenta numerosi inconvenienti. Innanzitutto, sottrae al Parlamento la sua principale funzione. In secondo luogo, spinge i parlamentari a utilizzare i decreti legge come “attaccapanni” ai quali, in sede di conversione, si può aggiungere di tutto (le loro dimensioni raddoppiano nel passaggio parlamentare). Il governo è interessato a far passare il testo originario, mentre il Parlamento è assicurato circa una rapida approvazione delle sue proposte aggiuntive. Queste ultime sono una raccolta di richieste provenienti dalle più diverse corporazioni, non esclusa la corporazione interna della burocrazia, che utilizza il canale parlamentare per fare approvare in tempi rapidi modifiche da essa auspicate, qualche volta integrando i provvedimenti del governo, qualche volta addirittura bypassando il governo. Così finiscono per confluire e convergere gli interessi dei tre corpi dello Stato quello governativo, quello parlamentare e quello burocratico.
Francese. Noi d’oltralpe, notiamo un ulteriore elemento negativo. Normalmente si pensa che le corporazioni siano gruppi di interessi fuori dello Stato. Invece, come lei ha dimostrato, facendo l’esempio della burocrazia, in Italia sono molto importanti anche corporazioni che crescono e vivono all’interno dello Stato, che fanno sentire in maniera molto efficace i loro interessi. Questo vale anche per i giudici. Stanno dando una pessima prova di sè stessi, come dimostrato dalla lentezza dei giudizi e dalla grande quantità di cause pendenti, nonché dal continuo aumento dei giudici che, invece di fare il loro mestiere, diventano amministratori pubblici all’interno del ministero della Giustizia o di altri ministeri (dove va la separazione dei poteri? Possono in questo modo dichiararsi indipendenti?), così condizionando la politica della giustizia. C’è poi quella pagina nera costituita dall’enorme dispendio di energia intorno a un “non problema”, come quello della trattativa Stato-mafia. Sull’antimafia un acuto osservatore e studioso di questi problemi ha notato che “la trasparenza amministrativa e un clima civile di fiducia nelle relazioni pubbliche sono rimedi antimafiosi, assai più delle retate e dei maxiprocessi destinati a finire parzialmente nel fumo” (è una frase scritta da Alessandro Barbano, L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene, Venezia, Marsilio, 2022, pagina 213)
Italiano. Lei non tiene conto che non abbiamo mai fatto davvero i conti con il nostro passato. Basta vedere come si è svolta la discussione su fascismo e antifascismo, che sono diventati slogan vuoti. Basta vedere quello che accade ogni anno in proposito, e in particolare quello che è accaduto il 25 aprile di quest’anno, con il primo governo di destra. Sembrava una discussione tra teologi medievali. Nessuno ha ricordato i fatti, i passaggi fondamentali del quinquennio che va dal 10 luglio del 1943 al 1 gennaio del 1948. Mi riferisco allo sbarco degli alleati in Sicilia, alla decisione del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio del 1943, all’8 settembre di quell’anno, e cioè all’armistizio e poi alla guerra alla Germania, al 25 aprile 1945 e alla riconquista della sovranità e della libertà contro i nemici esterni e interni, al 2 giugno del 1946 con la Repubblica e l’elezione dell’Assemblea costituente, e infine al 1° gennaio del 1948, e cioè all’entrata in vigore della Costituzione. Nessuno ha ricordato quanti fossero i resistenti – una agguerrita minoranza di 100 mila persone, più altrettanti fiancheggiatori – i 35 mila morti, i 21 mila mutilati, i 9 mila deportati, il riconoscimento dato dalla commissione inglese Hewitt secondo la quale, senza i partigiani, gli alleati non avrebbero così facilmente e rapidamente conquistato la penisola. E nessuno ha ricordato gli istituti concreti del fascismo cioè, lo stile autoritario, i limiti alla stampa disposti dai prefetti in base a leggi approvate dal 1923 al 1926, quelli alla libertà di associazione sulla base di leggi adottate dal 1924 al 1930, la formazione del Partito nazionale fascista come unico partito, i limiti alla libertà personale disposti sulla base di leggi approvate tra il 1923 e il 1926, la limitazione delle autonomie con la nomina statale dei podestà al vertice dei comuni, e, infine, i tre passaggi relativi al cardine della democrazia, le elezioni, costituiti dalla legge Acerbo del 1923, che dava due terzi dei seggi a chi avesse avuto più di un quarto dei voti, quella del 1928 sui plebisciti su una unica lista formata dal Gran Consiglio del Fascismo, poi tenuti nel 1929 e nel 1934, e infine la soppressione di ogni elezione con la Camera dei fasci e delle corporazioni nel 1939.
Francese. Dal nostro punto di vista, l’aspetto più ridicolo è stata la ricerca dell’antifascismo nella Costituzione, come se nella Carta ci dovesse essere una dichiarazione programmatica di tipo antifascista. Non è importante ciò che si proclama nelle costituzioni, ma il modo in cui sono configurate le istituzioni, se vengono riconosciute le libertà fondamentali, se vengono previste periodiche elezioni, se viene garantita l’uguaglianza. Nella Costituzione repubblicana c’è tutto questo, non solo per merito dei membri dell’Assemblea costituente, ma anche per il lavoro indefesso svolto in pochi mesi da Pietro Nenni quale Ministro per la costituente e da Massimo Severo Giannini, allora un giovane trentenne, che fu il suo capo di gabinetto. Il governo Parri avviò il processo e furono fondamentali i lavori della commissione Forti sulla riorganizzazione dello Stato, di quella Demaria sull’economia, di quella Pesenti sul lavoro, e poi la raccolta dei testi e documenti e l’opera divulgativa svolta con i piccoli fascicoli prodotti dal ministero per la Costituente e con il Bollettino di informazione e documentazione. Fu così che si riuscirono a consolidare non solo i princìpi liberali e democratici affermati dopo la caduta del fascismo, ma anche i princìpi contenuti in quelle che Calamandrei chiamò “le grandi voci lontane del passato”, cioè quelle di Pisacane, di Cavour, di Beccaria, di Mazzini.
Francese. Tutto questo è spesso dimenticato da voi italiani. Basta pensare alla discussione sulle regioni. Furono introdotte, nonostante le perplessità di persone come Togliatti, per evitare un governo solo, per assicurare il policentrismo e il pluralismo. Le regioni comportano differenze. Ora si discute tanto del regionalismo differenziato, ma le regioni meridionali avrebbero potuto, con intelligenza politica, chiedere l’autonomia differenziata, più autonomia proprio perché sfavorite.
Italiano. Non ci possiamo permettere tutto questo perché abbiamo un pesante debito pubblico, per la breve durata dei governi, per le strutture deboli dell’amministrazione, a cui ora si aggiunge l’inflazione.
Francese. Anche questo è un capitolo interessante. Perché lasciate la Banca centrale sola a lottare l’inflazione. Questa è un problema di trasmissione. Non ci sono altri modi per interrompere la trasmissione dell’inflazione?
Italiano. Per fare questo sono necessari “sensori” negli apparati statali, che invece vanno a rimorchio, non valutano e non segnalano.
Francese. Questo è un problema di scelta dei dipendenti, per cui basterebbe fare concorsi e scegliere bene i vincitori, ed è un problema di cultura amministrativa. Ancora una volta, se non si fanno accurate diagnosi, come si può cercare la cura adatta?
Italiano. Ma la base non c’è. Se le basi dell’edificio, che sono poste esclusivamente dalla scuola, traballano, come si può sperare che l’edificio rimanga stabile?
Francese. Anche qui c’è un problema di diagnosi.
Italiano. Le diagnosi sono state fatte, poi ripetute, ma debbono poi trovare un medico e una medicina. Ora si ricorre a una sorta di medicina generale, l’aspirina - semplificazione, che è solo un palliativo.
Francese. Mi lasci concludere con l’osservazione fatta da un grande storico e politico francese dell’Ottocento a proposito dei governi del nostro paese nel 1831 – 32. François Guizot, nei suoi “Mémoires pour servir à l’histoire de mon temps”, Paris, Lévey, 1859, II tomo, p. 386 – 387 scriveva: “Il faut que les peuples qui veulent être bien gouvernées renoncent à faire, de leurs impressions et des leurs goûts dramatiques, la règle de leur gouvernement. Ils ont quelquefois, comme les individus, ce que la médecine appelle des maux des nerfs, des vapeurs; sous des institutions libres, ces dispositions se manifestant bruyamment, et une politique intelligente en tient compte, mais dans la mesure de ce qu’elles valent et en sachant bien qu’elles ne sont nullement propres à une forte et longue action. C’est presque toujours, pour les nations comme pour les individus, un mal à traiter par le seul remède qui lui convienne, un bon régime soutenu et le temps. Ce fut le mérite de M. Casimir Périer de ne point céder à ces fantaisies qui n’étaient pas des vraies passions, et de persister à faire les affaires de la France selon le droit public et l’intérêt bien entendu, comme un homme sérieux fait les affaires d’un people sérieux ”.