L'analisi
Schlein propone un sistema fiscale alla tedesca. Ma l'Irpef italiana è già più progressiva
La segretaria del Pd al Festival dell'economia di Trento ha sostenuto una modifica dell'imposta sul reddito sull'esempio tedesco Eppure il nostro sistema è già può equo di quello adottato da Berlino. Ecco perché la vera svolta sarebbe ampliare la base imponibile e ridurre le aliquote
La segretaria del Pd Elly Schlein pochi giorni fa, al Festival dell’economia di Trento, ha sostenuto che il sistema fiscale deve essere reso più progressivo, e che a questo fine sarebbe utile modificare l’Irpef nel senso della progressività continua. In effetti, da alcuni anni nell’area del centro-sinistra c’è molta attenzione per l’imposta sul reddito tedesca, che realizza un prelievo progressivo non grazie a scaglioni associati ad aliquote crescenti, come l’Irpef italiana, ma con una formula matematica che determina un profilo crescente in modo continuo e regolare dell’incidenza media dell’imposta. Le cose nella realtà sono sempre più complicate, ad esempio anche in Germania in effetti vi sono alcuni scaglioni, ma secondo i proponenti i vantaggi del modello tedesco sarebbero sostanzialmente due, uno formale – comunque importante – e l’altro sostanziale. Quello formale è che l’imposta diventerebbe più leggibile e trasparente per il contribuente, quello sostanziale sta nel fatto che il policy maker potrebbe avere più gradi di libertà nel modificare la curva della progressività. Sarebbe ad esempio possibile ridurre l’Irpef solo sul ceto medio senza far risparmiare anche i redditi alti, mentre se oggi si riduce l’aliquota che grava su uno scaglione basso ne beneficiano anche i redditi alti. Il punto formale è importante, anche se gli ultimi interventi hanno ridotto i forti salti dell’aliquota marginale effettiva (quanto si paga se si guadagna un euro in più), rendendo più semplice capire per il contribuente il funzionamento dell’imposta.
Oltre al modo con cui si determina matematicamente la progressività, è interessante chiedersi se vi siano altre cose che possiamo importare dall’Irpef tedesca, in particolare per quanto riguarda l’incidenza sui diversi livelli di reddito. Su questo punto, cioè sulla curva complessiva del carico fiscale al variare della base imponibile, Germania e Italia sono in realtà molto vicine: in entrambi i paesi i redditi bassi non pagano, poi l’incidenza dell’imposta sul reddito comincia a crescere seguendo una curva a campana – cioè con pendenza prima molto alta e poi più lieve – fino a raggiungere in Germania il 45 per cento e in Italia il 43 per cento, a cui però vanno aggiunte le addizionali comunale e regionale.
Le curve dell’incidenza sono molto simili, con quella tedesca un po’ più bassa. Fare un confronto preciso è difficile perché bisogna tenere conto anche dei contributi sociali, comunque si può dire che sui redditi bassi l’incidenza dell’imposta sul reddito è inferiore in Italia, sui redditi medi è simile, e sui redditi alti è maggiore in Italia. Quindi nel suo complesso l’Irpef italiana è più progressiva di quella tedesca, ma le differenze sono piccole. Da queste somiglianze si ricava che per aumentare la progressività dell’Irpef italiana non basta importare il metodo di calcolo tedesco, bisognerebbe anche vincere una battaglia politica impostata sull’aumento di un grado di progressività formale che già non è affatto piccolo, almeno se ci limitiamo ai redditi dei dipendenti e dei pensionati. Va infatti ricordato che il problema numero uno dell’Irpef non è la progressività, cioè l’equità verticale, ma l’equità orizzontale, ovvero l’iniquo trattamento differenziato di redditi uguali nell’importo ma di natura diversa (dipendente, autonomo, di capitale immobiliare o finanziario, ecc.).
Da decenni si dice che la regola fondamentale per le riforme fiscali è “ampliare la base imponibile e ridurre le aliquote”, di cui la frase “pagare meno per pagare tutti” è una variante italiana, ma quella per la ricomposizione e l’ampliamento della base imponibile è una battaglia molto impopolare che pochi vogliono intestarsi. E anche la recente legge delega non promette molto di buono in questo senso.
Massimo Baldini
economista, Università di Modena e Reggio Emilia