l'analisi
Cosa manca ai riformisti dem per contendere il primato a Schlein
Così come la segretaria ha vinto aprendo il partito, così chi si riconosce nel pragmatismo degli amministratori locali non può limitarsi a un ruolo residuale e alla riproposizione della solita cantilena socialdemocratica. Urgono soluzioni innovative
La scoppola incassata ai ballottaggi dal Pd di Elly Schlein e la vittoria controcorrente del vicentino Giacomo Possamai oggettivamente riaprono il dibattito dentro il partito e consegnano un’enorme responsabilità ai cosiddetti riformisti. L’area Bonaccini, per dirla in sintesi, che aveva vinto le primarie dentro il recinto organizzativo del partito ma aveva perso il match nei gazebo. Le contraddizioni da sciogliere sono molte e anche l’analisi del voto si presta a considerazioni non tutte perfettamente allineate. Già nella serata di lunedì con un tweet il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, non solo si congratulava con Possamai per il bel successo in terra berica ma allargava la riflessione sottolineando come tutti i grandi comuni allineati lungo l’autostrada del pil, la A4, sono governati da giunte di centrosinistra di orientamento riformista. Si parte dalla Torino di Stefano Lo Russo si arriva alla Milano di Beppe Sala si prosegue via Bergamo e si arriva a Brescia, rimasta grazie a Laura Castelletti fuori dall’ondata della destra. Ma anche la Verona di Damiano Tommasi è in mano al centrosinistra come Vicenza e si arriva sempre seguendo il nastro autostradale fino alla Padova di Sergio Giordani. Gori, in realtà, nel suo tweet non si è limitato a un’analisi per così dire geo-orizzontale (il tragitto della A4) ma ha intrecciato le bandierine dem di cui sopra con quelle che possiamo veder sventolare sul tracciato verticale della A1 da Milano a Bologna con Piacenza (Katia Tarasconi), Parma (Michele Guerra), Reggio Emilia (Luca Vecchi), Modena (Gian Carlo Muzzarelli) e appunto la città di S. Petronio (Matteo Lepore) tutte governate da sindaci del centrosinistra.
Ma, ci si può chiedere legittimamente, quanto conti nel giorno della sconfitta questo tipo di ricognizione. E se non possa essere rubricata come meramente consolatoria attribuendo a quel doppio asse autostradale un valore politico più elevato rispetto alle sconfitte patite dal centrosinistra nelle città toscane, ad Ancona o nel centro-sud. Nelle passate tornate elettorali, a proposito delle vittorie dem nei capoluoghi delle arterie del pil, si era molto riflettuto sul divario politico-culturale città-campagna e si era convenuto che in qualche maniera elettorati più allenati all’innovazione e alla modernità alla fin fine preferissero il Pd alla destra. Mentre negli stessi territori passando dalla dimensione della città a quella dei piccoli centri il rapporto – due volte su tre – si invertisse con la prevalenza del centrodestra grazie a un elettorato più conservatore, più timoroso dei riflessi dell’innovazione e comunque meno affascinato dalle meraviglie della modernità. Più terragno. Oltre però a considerazioni di carattere per l’appunto culturale la prevalenza dem nei capoluoghi del pil si è sposata quasi sempre, almeno nelle analisi degli osservatori esterni, con una familiarità dei sindaci riformisti (o quasi) con i temi dell’impresa e del lavoro sempre estremamente presenti nei territori e nei sistemi a rete della Padania. Molti primi cittadini del Pd hanno coltivato da tempo ottimi rapporti con l’associazionismo imprenditoriale sia sul versante Confindustria sia sul versante dei Piccoli con una formula di compromesso laburista di nuovo conio capace di costruire un ecosistema impresa-friendly molto apprezzato dalle controparti. E’ chiaro che se vogliamo trovare più in grande sul piano dimensionale questo tipo di elaborazione e cultura politica il punto di riferimento di questi anni è stata sicuramente l’azione non di un sindaco ma di una regione, l’Emilia-Romagna, e del suo governatore. Addirittura qualche commentatore ha parlato di “capitalismo amministrativo” a proposito della relazione tra governo regionale e interessi imprenditoriali e sono diverse le iniziative legislative che hanno scandito questo processo. Dall’attrazione degli investimenti greenfield delle multinazionali al Patto per il lavoro e il clima fino alle norme per l’attrazione dei talenti. Per dirla con una battuta, tanta trama.
Ma, ed è questa la domanda che ci si deve porre dopo i ballottaggi, può questo capitale politico-culturale di sindaci e governatori dem costituire l’asse portante, la A e la Z, di una rinnovata battaglia a sinistra per riconquistare un primato riformista? E’ molto molto difficile. La sconfitta di Bonaccini alle primarie non si cancella con un tratto di penna e le attuali difficoltà della regione Emilia-Romagna alle prese con le questioni aperte dall’alluvione, sia politiche sia di risanamento, non favoriscono certo un protagonismo del leader di Campogalliano. E di conseguenza l’area riformista del Pd è chiamata a un rinnovato sforzo di apertura culturale se vuole contendere spazio politico a Elly Schlein e rilanciare quantomeno l’idea di una coalizione dem-centrica capace di contendere alla destra la maggioranza dei consensi.
E’ difficile, infatti, che la battaglia possa essere vinta solo nelle stanze di partito, così come la segretaria ha vinto facendo riferimento a un più largo elettorato dei gazebo, i riformisti devono seguire la stessa strada. Sono stati sconfitti alle primarie dai miraggi della Radicalità e della Contemporaneità e sono costretti quindi a misurarsi su questo terreno, non possono rifugiarsi solo nel laburismo consolatorio di cui sopra. E non possono avere come compagni di strada i soliti vecchi e prestigiosi nomi del Novecento, devono aprirsi a culture e personalità nuove. Penso sicuramente ai temi del non profit ma anche a tutte quelle elaborazioni che cercano di creare un nuovo alfabeto democratico nella società dominata dalla tecnologia e caratterizzata da una crescente disintermediazione.
Per farla breve l’agenda dei riformisti oggi appare troppo stretta per permettere loro di giocare un ruolo decisivo. Per la formazione politico-culturale che hanno non possono certo non partire dai temi primari su cui si gioca il consenso (inflazione, casa, sanità, ambiente) ma saranno costretti a farlo con una curvatura nuova e non ricorrendo alla solita cantilena socialdemocratica. Devono aggiungere in agenda i temi della contemporaneità “dura” e produrre ipotesi di soluzione laddove Schlein parte dagli stessi presupposti ma si limita a declinarli in chiave identitaria o persino vagamente allusiva. Le risposte non si possono dare solo in chiave di stili di vita (come nell’intervista a Vogue) o fuggendo dalle decisioni più scottanti come è avvenuto nelle settimane prima delle amministrative. Francamente però oggi i riformisti, da soli, non sembrano attrezzati a giocare questa partita ma dovranno pur farlo, altrimenti saranno inevitabilmente schiacciati in una posizione ancor più residuale. Bartaliana. E non potranno limitarsi a intasare la casella di posta elettronica dei commenti di Repubblica.