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Fitto congela il Pnrr e cerca alibi. I ritardi di Meloni? Colpa di Draghi

Valerio Valentini

La Relazione semestrale illumina la strategia del governo: giustificare l'affanno sul Recovery evidenziando gli errori commessi da chi lo ha varato. Intanto si procede per proroghe: già chiesto un rinvio per la scadenza di giugno, e si spera in un prolungamento oltre il 2026

Chissà se poi il paragone gli dispiacerà, da vecchio democristiano cooptato al sovranismo. Chissà, cioè, se Raffaele Fitto non si compiaccia un po’, nel vedersi attribuita quall’arte tutta forlaniana per cui “potrei parlare per ore senza dire niente”. Far passare il tempo provando a guadagnarlo. Anche in una sfida, quella del Pnrr, in cui il tempo sembra una variabile non negoziabile. E che però il ministro vuole negoziare. Sulla scadenza di giugno, ora ne abbiamo la certezza, la proroga è stata già chiesta. Per quella del 2026, ci si spera.

Almeno questa certezza, la presentazione della Relazione semestrale sul Pnrr l’ha fornita. Ciò che Fitto aveva finora evitato di confermare, svicolando alla bisogna da par suo, ciò che perfino ieri, durante la conferenza stampa seguita al varo del documento, ha lasciato nel vago di una circonlocuzione assai fumosa, sta invece lì, nero su bianco, a pagina 67. C’è scritto che il 10 maggio scorso, durante una riunione con la Commissione europea, “si è convenuto di procedere a una rimodulazione complessiva del Piano entro i termini previsti dal Regolamento 2021/241”, per cui “la richiesta di pagamento della quarta rata (...) sarà presentata in linea coni tempi di questo processo”. Tradotto: il governo ha già comunicato a Bruxelles che si avvarrà, in vista della scadenza di giugno, di una procedura d’emergenza che consente di congelare la verifica dell’attuazione del Piano, e l’erogazione della relativa rata, fino a sei mesi. Vuol dire, anche se Fitto preferisce “non commentare in riferimento al nostro paese questo scenario”, che i 16 miliardi previsti per i 27 obiettivi concordati slitteranno all’autunno, se tutto va bene. A ridosso del 2024, in caso peggiore.

Del resto, ancora non sembrano esserci novità imminenti sulla terza rata, quella relativa a dicembre scorso, che vale 19 miliardi. Il controllo “a campione” da parte della Commissione prosegue, e non si esclude che alla fine il bonifico erogato da Bruxelles sia decurtato di qualche centinaio di milioni (e Fitto, di nuovo: “Al momento non ho valutazioni da fare”).

 E così, di ritardo in ritardo – nella relazione non si nascondono le complicazioni nella definizione del RePowerEu, su cui si ammette di non conoscere ancora la cifra che vi verrà destinata, e in che forma, e sì che a Bruxelles si attendevano delle risoluzioni entro il 30 aprile: auguri! – si inizia a intravedere una strategia che è in verità una speranza, ma che a Palazzo Chigi non negano più, anzi. L’ipotesi, cioè, è quella di strappare una proroga sostanziosa rispetto alla scadenza finale del Pnrr, fissata al 30 giugno 2026. Uno scenario che finora la Commissione ha sempre risolutamente negato, ma che Giorgia Meloni spera possa diventare praticabile dopo le europee, col cambio di equilibrio politico da lei agognato (e pazienza se una eventuale affermazione dei partiti a destra del Ppe sembra piuttosto preludere a una stretta rigorista, sui fondi comuni).

Nel frattempo, mentre si azzardano pronostici sul futuro, Fitto è in conferenza stampa che parla, parla, parla, e dice in verità pochino sulle sue intenzioni. Si capisce, però, quale sarà la retorica a cui il governo ricorrerà nei prossimi mesi per giustificare l’affanno sul Pnrr. E lo si capisce ancor meglio leggendo la Relazione. La sostanza è che il Piano italiano è di gran lunga il più complicato di quelli degli altri stati membri, e che è stato allestito – questa la tesi di fondo – senza tenere conto delle difficoltà che avrebbe comportato. Di qui la scelta ritenuta azzardata di richiedere l’intera somma dei prestiti “adottata, oltreché dall’Italia, solo da Grecia e Romania”. Di qui l’aver accettato che nel Piano italiano, “come in quello rumeno”, venissero inseriti degli indicatori di performance ben più stringenti di quelli negoziati da Francia e Germania. Di qui una eccessiva frammentazione di opere – i progetti d’importo non superiore al milione di euro, si fa notare, “sono pari a circa l’87 per cento del totale” – che “rappresenta un punto di debolezza dell’attuale formulazione del Piano in quanto contribuisce alla dispersione delle risorse”. Insomma, un bel condensato di recriminazioni su scelte fatte dal governo Draghi che dovrebbe servire come comodo alibi laddove l’attuazione del Pnrr si complicasse ancora più di quanto sia già ora complicata, se è vero che “sono 120 le misure rispetto alle quali sono stati rilevati elementi di difficoltà nella loro realizzazione”.

Se il prendere tempo per guadagnare tempo è dunque un dogma, per Fitto, va detto però che il ministro sa esibire, quando vuole, il piglio decisionista. E così, alla vigilia dell’incontro coi vertici della Corte dei conti, previsto per oggi a Palazzo Chigi, ieri il governo ha presentato l’emendamento al decreto Pa che azzera i poteri dei magistrati contabili sul controllo concomitante in merito all’attuazione del Pnrr. Il tutto, accompagnato dai toni felpati di un Fitto che dice “da parte mia, mai nessuna dichiarazione sopra le righe verso la Corte dei conti”. Una mossa da “coniglio mannaro”: e pure questa, in effetti, era prerogativa di Forlani.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.