dopo il voto a strasburgo

L'ambiguità di Schlein sull'Ucraina è sbagliata e controproducente

Luciano Capone

La strategia ambigua della segretaria sul sostegno militare a Kyiv è senza sbocco, perché non potrà discostarsi da Mattarella e dal Pse. Alla fine il Pd perde credibilità e l'elettore "pacifista" preferirà comunque votare il M5s di Conte

“Non mi iscrivo al Pd”, ha detto a Repubblica Paolo Ciani, neo vicepresidente dei deputati del Pd. “Non credo nella vittoria militare, cioè armare l’Ucraina perché possa vincere – ha aggiunto –. Dopo un anno e mezzo di guerra il partito può evolvere in nuove posizioni”. Il problema non sono ovviamente le opinioni di Ciani, esponente di Demos e della Comunità di Sant’Egidio, ma il fatto che Elly Schlein abbia scelto proprio lui – unico fra i parlamentari eletti con il Pd a votare contro gli aiuti militari a Kyiv –  per coordinare il gruppo parlamentare. Soprattutto dopo il pasticcio del voto al Parlamento europeo sul regolamento Asap per la produzione di munizioni su cui il Pd si è spaccato tra favorevoli, astenuti e contrari anche perché la segreteria non ha dato indicazioni.

 
Per questi sbandamenti sulla politica estera non sarebbe corretto utilizzare le categorie della confusione e dell’impreparazione nei confronti di Schlein, come in genere si fa in questo paese con i giovani ritenuti per definizione inesperti o incapaci. È invece evidente che sul tema della guerra in Ucraina, il Pd ha scelto una linea molto più sfumata rispetto alla segreteria di Letta che diventa progressivamente sempre più ambigua, con l’obiettivo di entrare in connessione sentimentale con il “popolo della sinistra” e drenare un po’ di voti dal M5s di Giuseppe Conte in vista delle europee. Si tratta però di una strategia pericolosa, perché da un lato rischia di far perdere credibilità internazionale al partito e dall’altro non è detto che venga premiata alle urne.

 

In primo luogo perché la linea dell’ambiguità sulla politica estera non ha uno sbocco. Per quanto possa vedere con favore gli sforzi del cardinale Zuppi, che comunque è ben consapevole di poter ottenere risultati umanitari ma non il negoziato di pace tra Russia e Ucraina, il Pd ha due fondamentali punti di riferimento politici: uno interno, che è il presidente della Repubblica Sergio Mattarella; uno esterno, che è il gruppo del Partito socialista europeo.  La posizione del Quirinale, espressa negli ultimi discorsi ma anche in maniera più chiara in viaggi istituzionali come quello in Polonia, è chiarissima: “Sostegno all’Ucraina finché è necessario, finché occorre, sotto ogni profilo: di forniture militari, finanziario, umanitario, per la ricostruzione del paese”. Mattarella, che è stato ministro della Difesa e giudice costituzionale, sulla politica estera e sul posizionamento internazionale dell’Italia non lascia spazio ad ambiguità.

 

Anche la linea dei partiti socialisti europei è chiara. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz, nonostante una storica vicinanza della Spd alla Russia e alla Ostpolitik, è determinato nel sostegno militare all’Ucraina insieme alla Nato. L’altro grande partito socialista europeo, il Psoe spagnolo, ha superato qualsiasi titubanza iniziale. Il premier Pedro Sánchez ha garantito “pieno sostegno” a Zelensky, ha inviato i carri armati armati Leopard in Ucraina e nell’ultimo budget ha aumentato le spese militari con l’obiettivo di raggiungere il target Nato del 2% della spesa sul pil entro il 2029. Stessa linea per il portoghese António Costa. Per non parlare dei partiti socialdemocratici scandinavi, pienamente allineati alla Nato. O, per restare in Europa ma fuori dall’Ue, al Labour di Keir Starmer.

 

E sebbene la sinistra sia in difficoltà in Europa, a perdere più consensi sono proprio i partiti più radicali con posizioni pseudo pacifiste: in Spagna Podemos, contraria all’invio di armi, è in una crisi esistenziale; in Grecia Syriza di Alexis Tsipras ha perso rovinosamente le elezioni; in Portogallo la sinistra radicale è all’opposizione del Partido socialista; in Regno Unito Corbyn è fuori dal Labour che si appresta a tornare al governo.


Insomma, se dietro questa posizione ambigua sulla politica estera c’è un ragionamento di tipo elettoralistico, al di là delle considerazioni di merito, non si capisce neppure quale sarebbe l’utilità politica se il Pd nei frangenti decisivi non può  abbandonare la strada indicata da Mattarella per seguire quella di Andrea Riccardi e della Comunità di Sant’Egidio e se il Pd non può dissociarsi dalla posizione della Commissione europea, della Nato e del gruppo del Partito socialista europeo.

 

D’altronde l’elettore che ha radicate convinzioni pacifiste alle contorsioni di Schlein preferirà comunque la chiarezza di Giuseppe Conte, che ha schierato il M5s sul fronte anti armi e anti Ucraina. Il rischio è, invece, di perdere i voti degli elettori che non vogliono tentennamenti su una questione fondamentale come l’aggressione di Putin all’Ucraina e all’Europa. È forse vero che non è questo il tema su cui votano i cittadini, più interessati a questioni come l’inflazione, il lavoro e l’ambiente. Ma a maggior ragione Schlein dovrebbe concentrarsi con proposte anche radicali su questi temi, senza mettere in discussione la politica estera e la credibilità del Pd.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali