L'editoriale dell'elefantino
Un vice capogruppo che non fa parte del gruppo non è un innesto: è un principio di dissesto, caro Pd
Paolo Ciani è a capo dei deputati dem, ma non fa parte del partito. Dopo la vittoria di Schlein alle primarie con il voto di cani e porci, questa nomina ha un sapore riciclatorio e snob che renderà difficile la convivenza
A questa non ci aveva ancor pensato nessuno. Il vice capogruppo del Pd alla Camera non è del Pd e non ha alcuna intenzione di iscriversi. Anzi, è di un altro partito e in quanto tale chiede di poter accedere ai finanziamenti pubblici per la sua organizzazione. Non è sublime, non è surreale? Groucho Marx, immenso interprete della grande era del wit newyorchese, diceva: “Non farei mai parte di un club che mi accettasse come socio”. Il buffo involontario Paolo Ciani, appena scelto come pupillo di Elly Schlein alla testa dei deputati, dice: “Un club che mi affidi doverosamente la presidenza non è degno di avermi come socio”. Nella differenza comica c’è tutto il variare dalla strepitosa ironia che diminuisce il sé, perché ogni vera ironia è autoironia, alla crisi dei partiti italiani sepolti infine dal narcisismo e dal jemenfoutisme.
Paolo Ciani farà magari un ottimo lavoro militante in Parlamento e sul cosiddetto territorio, e meglio ne sortirà il suo caro partito (l’altro) più chiara sarà la trasformazione dell’appartenenza politica in disappartenenza individuale programmata. La destra forse esagera nell’evocare la comunità di destino, il patriottismo dell’identità: sono espressioni molto cariche e qualche volta equivoche. Ma scaricarle nell’indifferenza o nell’indifferenziato del Demos, che è il nome del partito di Ciani, dopo che la segretaria del partito è stata eletta da cani e porci in quanto neoiscritta estranea alla storia dell’organizzazione, ha un sapore riciclatorio e snob che probabilmente renderà difficile la convivenza o come si dice adesso la condivisione. Uno i tortellini alla festa dell’Unità li fa per gli altri, ma se si siedono a capotavola e li esigono con tracotanza, le cose cambiano. Qui per anni abbiamo flirtato con l’idea del partito leggero, senza ingombranti apparati e riti tradizionali, non pensavamo mai che leggerezza facesse questa strana rima con evanescenza, per finire con teoria e pratica di un partito che non c’è perché ce n’è un altro che lo tiranneggia e lo smerda con ipocrisia e iattanza. Tutti quei segretari, fondatori, militanti venivano da due tradizioni, la comunista e la democristiana, con generosi innesti nell’amalgama mal riuscito. Bene o male era gente che aveva famiglia, non solo in senso longanesiano. Era gente che della nostra storia italiana aveva fatto parte. Tutti quei voti, che non sono pochissimi anche se condannati all’impotenza dalle circostanze politiche, erano ascrivibili a qualcosa di vivente o di sopravvivente nella società.
Ora un vice capogruppo che non fa parte del gruppo non è un innesto, è un principio di dissesto, una battuta da comica finale che nemmeno una storia con poche glorie e tante sconfitte meritava. Non si sa se la faccenda farà notizia come sarebbe il caso. Può essere che lo sfasciume dei partiti, condannati da un corso storico cinico e baro senza che nessuno abbia ancora dimostrato come sostituirli, sia arrivato a un punto tale che l’elezione di un alieno a Monte Citorio sia trattata come fu trattato dopo qualche giorno il famoso Marziano a Roma (a Marzia’, facce ride). Eppure le ultime elezioni hanno premiato un gruppetto politico piccolo che ha per anni lavorato per essere considerato un partito di governo, con le sue gavette, le sue complicità, le sue prodezze e sornionerie ideologiche e culturali, le sue solidarietà di sezione. Strano ghiribizzo questo di considerarsi estranei a sé stessi e di volersi tanto narcisisticamente male.