Il mondo di b.
La corte e il Castello, così il Cav. comandava nel caos
Le fantasie, le contraffazioni della realtà, i cerimoniali che nulla c’entravano con le segreterie di partito e la casa come luogo di esercizio del potere: “A Palazzo Chigi le barzellette non vengono bene”. L’anomalia gigantesca di Berlusconi
Seguire Silvio Berlusconi da cronista parlamentare al Foglio, nel primo decennio degli anni Duemila, significava anche talvolta assistere a delle telefonate che avevano dell’incredibile. Consiglio dei ministri, situazione tragica, governo in bilico, dimissioni dietro l’angolo. Il direttore del Foglio, Giuliano Ferrara, che nella sua stanza afferra il telefono, e chiama Palazzo Chigi davanti a due giovani giornalisti politici. “Cerco il presidente”, diceva al centralino. Il presidente però era in Consiglio dei ministri, appunto. “Non si può”, gli dicono. Ma il direttore è uno che si impone. Dunque alla fine gli passano il presidente. Poche parole: “Non dia retta a Tremonti, non firmi nulla. Non si dimetta”. Intanto le agenzie battevano: “Consiglio dei ministri drammatico. Lite con Tremonti. Berlusconi abbandona la stanza per ricevere una misteriosa telefonata dall’estero”. Ma quale estero, eravamo noi del Foglio: Lungotevere Raffaello Sanzio 8/C. E così spesso avevamo informazioni che nessun altro giornale aveva. Erano quelle che ci dava Lui, il Cavaliere, anzi il Cav. Direttamente. Di prima mano. Solo che alcune volte, anzi spesse volte, non erano informazione vere.
Nel senso che Berlusconi aveva troppa fantasia, era troppo ottimista. Il che ogni tanto lo portava a non fare i conti con la realtà. Un oggetto, la realtà, con il quale egli manteneva un rapporto di tipo padronale: lui la rispettava la realtà, certo. Ma a distanza. Tenendola al suo posto, senza permetterle di prendersi troppe libertà. Sicché magari voleva tagliare le tasse, sì, ma non aveva calcolato il debito pubblico né il ministro dell’Economia. E magari voleva davvero lanciare una riforma per sburocratizzare l’Italia, ma se c’erano delle resistenze faceva spallucce: pensava di poter risolvere tutto con una cena a casa, il mercoledì, offrendo pennette tricolori a Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini. Figurati. Quando trovava che la discussione s’era fatta troppo ingarbugliata, piazzava all’improvviso una battuta spiazzante: il suo modo di essere capo ma anche ospite. “A Palazzo Chigi le barzellette non mi vengono così bene”, diceva. Sicché, per farla breve, a volte lui ci raccontava una cosa, a noi del Foglio. Ma poi accadeva il contrario. Tanto che alla fine non gli riusciva (quasi) nulla. Dunque per raccontare Berlusconi il modo migliore era in realtà quello di non ascoltarlo troppo. Un giorno mi capitò di dire al direttore questa frase a proposito di non so più quale provvedimento: “Berlusconi ha deciso”. E Ferrara, ironico e bonario: “Berlusconi non decide mai”. Allora meglio ascoltare la corte. Quelli che avevano meno fantasia di Berlusconi, diciamo. Gli abitanti del Castello Grazioli e di Arcore, i cortigiani del Cavaliere, quel piccolo esercito di uomini e donne abituati alle regole di casa, a un cerimoniale che nulla aveva a che vedere con le segreterie di partito, con la grisaglia ministeriale o con la livrea dei commessi di Montecitorio. Tutti perennemente in guerra gli uni con gli altri, i cavalli del Cavaliere, sono stati la fonte migliore per il cronista. Bastava chiamare al telefonino, per esempio, Fabrizio Cicchitto, prima generale di Forza Italia e poi potentissimo capogruppo del Pdl alla Camera per sapere cosa succedeva davvero. Cicchitto non raccontava nulla, ma distratto com’era, lasciava il telefono aperto sul tavolo delle riunioni.
Attenzione, Cicchitto di suo non diceva proprio niente al cronista insistente. Affezionato al ragionamento politico e intellettuale, questo vecchio socialista transitato nel berlusconismo rifuggiva con fastidio e persino con orrore dal dettaglio pettegolo. Quando lo si interpellava su faccende di cronaca, infatti, lui si innervosiva per le domande, bofonchiava qualcosa – spesso: “Testa di cazzo” – e alla fine in realtà non parlava. Tuttavia capitava, una volta su tre, anche più spesso, che per distrazione, al termine di queste brevi conversazioni, Cicchitto poi non chiudesse il telefono. Insomma non premeva il benedetto tasto rosso. E lasciava il cronista in linea. Ed era una festa. Quel telefonino poggiato sul tavolo di riunioni di partito o di coalizione: una goduria. Ecco le voci di Berlusconi, Denis Verdini, Paolo Bonaiuti, Niccolò Ghedini, Angelino Alfano, Giancarlo Giorgetti, talvolta persino di Gianfranco Fini. Una volta, con questo stesso sistema, capitò addirittura di origliare un surreale processo in contumacia che Cicchitto, Renato Schifani e Angelino Alfano, seduti a un tavolo della trattoria “Osteria del Sostegno”, alle spalle di Montecitorio, stavano facendo a Daniela Santanchè da loro ingiustamente accusata di aver spifferato tutto il contenuto di una riunione a porte chiuse a Palazzo Grazioli. “C’erano le nostre parole esatte”, si lamentava Schifani, presidente del Senato. E Alfano, segretario del Pdl: “Qualcuno non è leale”. E Cicchitto: “Dev’essere stata la Santanchè”. Ecco la Corte di Castello Grazioli. Il disordinatissimo sistema con cui Berlusconi governava e sgovernava il partito, ma pure la coalizione di centrodestra e in definitiva persino l’Italia. Così.
Tra i salottini e le anticamere di Via del Plebiscito, a Roma, sempre affollate di svolazzanti individui, questuanti, collaboratori e segretarie. La colazione delle dodici, il punto sulla giornata tra un boccone di carne e di verdura, e poi ancora la riunione della sera, quando il Cavaliere, astemio, si concedeva un Sanbitter. Conoscere e raccontare il berlusconismo dall’interno significava conoscere e raccontare quei divani di casa Berlusconi sui quali Beppe Pisanu, ministro dell’Interno, s’era seduto mangiando un gelatino la notte in cui Forza Italia perdeva le elezioni il 10 aprile del 2006. Venticinquemila voti scarsi trasformarono la promessa della vittoria, offerta al Sovrano, nel destino di un emarginato: “Che fai qui sul mio divano? Corri al Viminale, Pisanu! Ci stanno cambiando le carte in tavola sotto il naso e tu te ne stai a guardare mangiando il gelatino”. Aspirine, mal di testa, urla e calcoli elettorali, invidie, rancori che esplodono, aria di casa in disordine e di aule giudiziarie. Duro il vivere degli ondeggiamenti della volontà di un Sultano bugiardo ma sincero, sempre impigliato nelle sue troppe contraffazione della realtà, depositario di un potere alimentato non tanto dalla rappresentanza, ma dalla rappresentazione, e quindi estraneo ai sottili meccanismi della politica classica. Si somigliano tutte le storie dei capi, dei presidenti e dei sovrani perfino, ma come ha scritto Pietrangelo Buttafuoco in “Beato lui”, il sublime ritratto-panegirico del Cavaliere in uscita il 27 giugno per Longanesi, quella di Berlusconi è una strabiliante sequenza di egolatrie ovvie al tempo di Eliogabalo ma inverosimili in questo nostro tempo. Con Berlusconi oggi scompare un’anomalia gigantesca. Scompare per sempre la sua Corte e scompare anche il suo Castello. Ma il giornalista parlamentare non creda che dopo di lui ritorni la politica.