(foto Ansa)

prove di leadership

Le incognite sul simbolo. L'asse col Ppe. Tajani prepara la resistenza in vista delle europee

Valerio Valentini

Il ministro degli Esteri cammina sul filo. L'alibi del "così ha deciso Berlusconi" non c'è più, e dalla corrente di Fascina invocano "collegialità". Cattaneo bellicoso, Ronzulli alla finestra

Gli alibi non più utilizzabili e quelli da non concedere. A essere cinici fin oltre il lecito, l’equilibrio che Antonio Tajani dovrà trovare sta tutto qui. Fosse facile. E invece no, facile non è per niente. Perché intanto da ora in poi la frase che tutto risolveva, il sortilegio che per mesi ogni dissidio ha soffocato, insomma quel “così ha deciso il presidente Berlusconi” non varrà più, è evidente, per giustificare scelte non condivise. E sì che ancora venerdì scorso, alla vigilia del pranzo che avrebbe dovuto rideterminare gli assetti di FI, prima che tutto precipitasse, era a quell’abracadabra che il ministro degli Esteri si affidava per scansare rogne. E dunque, ora che questo estremo rifugio non c’è più, ecco il pretesto da non concedere a chi, nel partito, vorrebbe fargli la guerra. “Collegialità”, è allora la nuova parola d’ordine. Il tutto, con vista sulle europee del 2024. 

Tajani sa che sarà quella la prova di maturità della sua leadership, è lì che i suoi detrattori lo attendono al varco. E le incognite ci sono tutte, ovvio. Intanto sul simbolo: lasciare il nome di Berlusconi, oppure no? L’ultima volta, nel 2019, il riferimento al capo c’era. E c’era pure l’impegno in prima persona come capolista in tutte le circoscrizioni (tranne quella del centro, lasciata a Tajani) e catalizzò solo sul suo nome più di mezzo milioni di voti. L’idea era di riproporlo in cima alla lista anche stavolta: per omaggio, certo, ma anche per garantirsi il traino di quel cognome stregato, immarcescibile. E invece no. La carne s’è consunta prima che il culto del mito s’esaurisse, e dunque ora tocca sperare che si replichi un po’ – ma in quel caso tutto avvenne in pochi giorni, qui manca un anno – il miracolo postumo che fu già di Enrico Berlinguer, quando nel 1984, sempre alle europee, il Pci fece il suo massimo storico proprio all’indomani del grande lutto e dell’apoteosi di San Giovanni.

 

E forse è anche per questo, sapendo insomma che la partita va giocata, che Tajani ha fissato alcune linee rosse. Anzitutto, nessun listone unico, nessuna fusione. Anzi, proprio ciò che ora tutti sembrano voler guadagnarsi, e cioè un posto al sole nel Ppe, “è cioè che FI naturalmente ha, e da anni”. E certo quel vantaggio non intende perderlo, il capo della Farnesina, né cederlo, con buona pace di chi vorrebbe descriverlo come asservito ai disegni di Giorgia Meloni. “Anzi per noi – spiegavano venerdì scorso gli europarlamentari più vicini a Manfred Weber, il presidente del Ppe che oggi sarà a Milano per i funerali del Cav. – è strategico non offrire alcuna sponda a FdI, fino alle europee, così da garantire una rendita di posizione al nostro amico Antonio”. Di lì le condanne senza appello dei Popolari nei confronti degli alleati di Meloni, dagli spagnoli di Vox ai polacchi del PiS.  
Scenari, comunque, che appaiono alquanto sfuggenti, in queste ore che restano, anzitutto, quelle del cordoglio. Perché è come se la lunga, tribolata stagione di decadenza del Cav., preludio inevitabile a quel che è successo, anziché consentire ai dirigenti di FI di elaborare in lutto per tempo sia stata invece accompagnata da una sorta di rifiuto, di negazione della realtà, insomma dallo sforzo di esorcizzare un esito che nessuno voleva prendere in considerazione. Per questo ancora giorni fa, di fronte alle richieste di chiarimento dei suoi parlamentari (“ma quindi andiamo alla prova di forza, in Senato?”), Tajani mostrava una certa indolenza: “Ma avete mai visto una prova di forza, da noi, che non sia dettata da Berlusconi?”. Come a dire: si farà la sua volontà.

 

E ora, quindi? Ora, certo, c’è un’investitura famigliare, per così dire, di cui Tajani si farà scudo. Per Marina, lui dovrà essere il traghettatore, e la scenografia del funerale, a quanto pare, starà lì a dimostrarlo, con “Antonio” come unico dirigente del partito ammesso alle funzioni più riservate. L’asse con Gianni Letta, imprescindibile per Tajani, conduce al terzo vertice di un triangolo di potere che dovrà garantire la transizione, o quantomeno la resistenza. Ma non basterà, a Tajani. E in fondo il gran clamore suscitato alla vigilia da un innocuo Comitato di presidenza (“roba che finché c’è stato il Cav. manco si sapeva cosa fosse”, confessano gli azzurri), poi risoltosi in nulla, ieri, sta lì a suggerire che no, senza trovare un’intesa che assicuri almeno una tregua armata sarà difficile tenere in piedi la baracca. Per questo Alessandro Cattaneo non esiterà a rivendicare maggiore coinvolgimento degli organi direttivi, sia per le strategia d’Aula sia per la composizione delle liste, non appena il tempo consentirà di deporre il silenzio obbligato dal cordoglio. Per questo, pare, anche la baldanza della “corrente Fascina”, ora che il potere d’influenza dell’ultima dama di Arcore andrà vagliato alla prova dell’assenza del Cav., suggeriscono cautela nelle prossime mosse, dicono cioè che pretendere le dimissioni di Licia Ronzulli da capogruppo al Senato “finirebbe col destabilizzare, e qui invece bisogna trovare un nuovo equilibrio”. Che resta precario, com’è evidente. Ed è su quel filo sottile che Tajani dovrà muoversi.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.