GranMilano
E ora, senza Berlusconi che sapeva guidare il centrodestra moderato ambrosiano, a chi toccherà?
Dopo gli anni di Albertini e Moratti, il Cav. è riuscito a incidere poco su Milano a livello amministrativo. Gli interrogativi sono tutti su chi possa raccoglierne adesso l'eredità
Gli articoli su Silvio Berlusconi erano tutti pronti. Da anni. La sua Milano, gli articoli di colore sulle sue visite milanesi, la mamma, gli amici di sempre, le televisioni, la buvette di Palazzo Marino e tutto il resto. Anche la polemica, quella sulla via o sulla piazza da intitolargli, e poi magari sul monumento da dedicargli, e perché no il Famedio, era là che già incombeva, lui in vita o a salma ancora ad Arcore. I giornalisti erano preparati per tempo. Tuttavia il racconto del leader, del politico, dell’imprenditore, dell’uomo che visse dieci vite in una non può prescindere da quello che politicamente Silvio Berlusconi è stato per Milano. Ovvero colui – salvo un innamoramento lungo qualche anno per Matteo Renzi – che la capitale morale ha davvero amato, non sempre ricambiato. E’ un dato di fatto ineludibile. Dove i candidati che piacevano a Silvio, del suo schieramento o addirittura degli altri, potevano davvero aver chance di vittoria.
Dopo gli anni un po’ grigi di Marco Formentini, diventato sindaco quasi per caso sotto le insegne della Lega ma con una robusta formazione socialista, che riuscì a sbaragliare uno dei mostri sacri della sinistra, ovvero Nando Dalla Chiesa, il Cavaliere si inventò Gabriele Albertini. Niente da dire di nuovo sull’epopea albertiniana (ne dà conto di persona nell’intervista in questa pagina), ma va sottolineato che quella esperienza fu quella di iun primo cittadino “primus inter pares”: nel senso che quella squadra (Del Debbio, Scalpelli, Parisi, Lupi, Verro, Carrubba, Sirchia, Casero) era di sicuro livello politico e amministrativo e fornì all’Italia un pezzetto di classe dirigente, basta osservare i percorsi succesivi di molti di loro. Erano gli anni in cui Silvio e Milano erano in piena sintonia, anche se delle questioni locali lui poco si interessava, salvo quando c’era da fare da kingmaker di qualcosa, che fosse la guida di Fiera Milano o il presidente del Consiglio comunale, innescando il solito pellegrinaggio ad Arcore.
Quegli anni hanno fruttato un lungo raccolto: dieci anni di Albertini, poi Letizia Moratti. Che fece il percorso inverso: prima in Rai, poi ministro, e poi sindaco. Sul Corriere, in una intervista lunga una pagina, ribadisce che il Cavaliere l’avrebbe votata alle ultime elezioni regionali. Ma l’urna è segreta, e la conferma non si potrà mai più avere, anche se Letizia è donna che non mente. Di certo lei perde la sfida con Giuliano Pisapia. Per alcuni sbaglia la campagna, per altri è semplicemente una questione di alternanza: dopo 15 anni è dura rimanere in sella senza cambiare profondamente la ricetta (il centrosinistra se lo segni per il prossimo giro) e soprattutto in un periodo in cui Berlusconi stava politicamente affondando. Dopo Pisapia Berlusconi rimase fedele allo schema, e propose un nome della prima nidiata di Albertini: l’ex city manager Stefano Parisi, che stimava al punto di volergli dare il partito (ma che Parisi non volle, sbagliando). Occasione perduta, campagna persa a favore di un altro dei suoi favoriti, Beppe Sala. Uno che tranquillamente il Cav. avrebbe potuto includere tra quelli che stimava di più, e che infatti gli ha reso omaggio senza infingimenti.
Da quel momento in poi Berlusconi non incide più su Milano. Non riesce a convincere Del Debbio (ancora di quella prima formidabile nidiata) a correre contro il secondo Beppe Sala. E il ritorno di Albertini non convinceva nessuno dei due. Alla fine la scelta passa alla Lega, ed è un disastro epocale. Non c’è sintonia e le elezioni sono una debacle pari solo a quella, a parti invertite, in Regione Lombardia. Da allora il centrodestra in città arranca, così come il centrosinistra arranca in Regione. Forza Italia è sempre più marginale e pezzi pregiati passano ora alla Lega ora a Fratelli d’Italia. Rimane qualche sacca di voto, sempre più anziana, che ricorda i bei tempi andati. Ma l’incantesimo si è rotto. E adesso chi raccoglierà le redini? Matteo Salvini che dovrebbe iniziare oggi a individuare e far crescere una candidatura che sia potabile, sempre che non insista sui soliti mantra che hanno dimostrato di non funzionare, che non spaventi una città laica, aperta, vogliosa di sicurezza ma che non può non essere multiculturale? Giorgia Meloni, che tuttavia non pare aver inquadrato l’importanza del popolo sotto la Madonnina, che frequenta poco e che – senza le puntate ad Arcore – potrebbe frequentare anche di meno, presa tra i mille impegni e incarichi nazionali e internazionali? Oppure Matteo Renzi, l’unico – come si diceva – del quale Milano si è innamorata, non ricambiata al governo (senza milanesi e senza protagonismo milanese) ma che non può essere certo il frontman di una nuova formazione di moderati? Chissà. E, lo diciamo per puro paradosso, ma i paradossi in politica a volte servono, il profilo moderato pragmatico e unitivo per Milano potrebbe essere proprio Beppe Sala. In fondo, come per Renzi, è un uomo a cui il Cav. avrebbe dato volentieri ruoli di primissimo piano. Come nel calcio, i vincenti Silvio li ha sempre riconosciuti per primo.