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L'analisi

Ritardi del Pnrr, autonomia e post-berlusconismo. Il futuro di Meloni si decide nel Meridione

Oscar Giannino

Come se non bastassero i ritardi del Piano di ripresa e resilienza, le lamentele delle regioni e gli effetti del post-Cav., il governo ha anche un problema con i fondi Ue dedicati al Mezzogiorno

Le 22 pagine del focus dedicato il 13 giugno da Istat agli effetti mancati dai circa 90 miliardi di fondi Ue dedicati dal 2020 alle regioni del nostro Sud fa squillare l’ennesimo campanello a Palazzo Chigi. E’ un bel problema che si interseca con tre questioni politiche rilevanti: i ritardi del Pnrr e come riconvertirne risorse inutilizzabili, l’autonomia differenziata delle regioni che Salvini vuole il più possibile accelerare e gli effetti della scomparsa di Berlusconi. Il rapporto Istat offre abbondanza di numeri a quanto già di dominio pubblico. Nel 2000 erano 10 le regioni italiane fra le prime 50 europee per pil pro capite e nessuna fra le ultime 50. Nel 2021 fra le prime 50 ne sono rimaste solo 4, mentre fra le ultime 50 ora sono Puglia, Campania, Sicilia e Calabria. Pesano tre determinanti: occupazione inferiore alla media Ue di ben 20 punti percentuali; produttività del lavoro che nei soli anni 2014-2020 è stata inferiore alla media Ue27 di 9 punti percentuali; declino demografico, che ai ritmi attuali vedrà nel Nord diminuire l’offerta di lavoro (cioè i residenti tra i 15 e i 64 anni) di un altro 7,2 per cento entro il 2040, mentre al Sud già entro il 2030 la diminuzione sarà pari al 9 per cento. Inevitabili le conclusioni: non solo al termine in ogni sessennio Ue dei fondi ordinari di coesione arriviamo col fiatone perché non riusciamo a spenderli, soprattutto la loro allocazione dispersa tra migliaia di microsoggetti attuatori sul territorio è aliena dal considerare prioritari grandi progetti per aggredire in radice le tre determinanti della bassa crescita del Sud identificate sopra. Dovrebbe essere questo il driver essenziale cui destinare sia i fondi ancora non utilizzati del ciclo 2014-22, che vanno utilizzati entro il 2023 per non perderli, sia della conversione proposta dal governo alla Ue per molti dei 140 progetti in sofferenza del Pnrr indicati nella relazione Fitto rivista dal Mef consegnata al Parlamento la settimana scorsa. Il governo apprezza la disponibilità delle imprese, che hanno riservatamente proposto la via di chiedere alla Commissione di destinare tali somme – o almeno una parte rilevante di esse – a incentivi per gli investimenti diretti delle imprese: si salvaguarderebbero i tempi, potrebbero essere progetti di investimento produttivo incardinati nelle stesse regioni i cui comuni sono troppo indietro, infine si aggiungerebbe finanza privata al fianco di quella europea per accrescere gli effetti su Pil potenziale, redditi e occupati. Ma il punto irrisolto è come dirlo a Comuni e autonomie: che hanno consegnato a Palazzo Chigi puntute relazioni in cui si dicono del tutto avversi a vedersi sottrarre progetti, bandi e gare. Quanto ancora si può aspettare per decidere? E come si può credere la risposta sia attribuire il più delle risorse ai grandi gruppi pubblici, se persino Rfi del gruppo Ferrovie soffre ritardi sui progetti Pnrr?

Le altre due questioni sono eminentemente politiche. Nell’attesa di conoscere la quantificazione dei Lep – cioè dei livelli minimi che le regioni devono offrire nei servizi pubblici per i loro residenti – senza di cui l’autonomia differenziata non può muovere alcun passo, come è immaginabile che il fallimento di 90 miliardi di fondi Ue per garantire più e non meno convergenza del nostro Sud non investa anche radicalmente i criteri del fondo nazionale di perequazione tra Nord e Sud, che dell’autonomia differenziata è cardine? Non ha alcun senso economico far dipendere i tempi di esame e varo dell’autonomia differenziata solo dal tiro alla corda con Salvini, che la vuole al più presto e senza collegamento con la revisione della forma di governo che Palazzo Chigi ha in mente. Tutti questi numeri devono inoltre far immaginare che le rappresentanze del Sud, politiche e istituzionali, diventeranno più intransigenti e meno accomodanti, indisponibili ad assumersi la colpa del fatto che a volere la massima dispersione dei fondi a prescindere dalle capacitò di metterli a buon frutto appartenga in primis alle loro amministrazioni. La Campania di De Luca e la Puglia di Emiliano diventeranno nodo politico rovente per il Pd di Schlein il prossimo autunno. E a questo nel centrodestra si aggiunge che sarà il Sud, la prima parte d’Italia in cui si manifesteranno possibili trasmigrazioni di eletti locali di Forza Italia verso altre forze politiche. I fenomeni alla Cateno De Luca, l’ex tonitruante sindaco di Messina oggi di Taormina, che con liste civiche da lui ispirate in Sicilia ha raccolto percentuali a doppia cifra, rischiano di infittirsi. Negli arabeschi della politica, sono tutte voci che puntano ad alzare i toni a difesa del Sud. Ci pensi bene Giorgia Meloni: solo numeri alla mano e con chiare deduzioni dai fallimenti del passato si può convincere chi sta peggio che davvero si può aprire una pagina nuova.

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