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a un anno dalle europee

Un Pd nudo in Europa

Norberto Dilmore

Le elezioni europee aiuteranno la destra a modernizzarsi. Il Pd non ha strategie per crescere. Che fare? Due idee

Le elezioni europee che avranno luogo [esattamente] tra un anno (6-9 giugno 2024) saranno il primo vero test per il nuovo gruppo dirigente del Pd. Certo, di qui al giugno dell’anno prossimo ci saranno stati alcuni importanti appuntamenti a livello locale e regionale. Tuttavia, queste competizioni coprono solo parte del territorio e sono troppo influenzate da fattori locali per poter discernere chiare tendenze che possono essere trasposte a livello nazionale. Dunque, le elezioni europee del 2024 rappresentano un test ben più significativo.

Per quel che riguarda il Pd, esse forniranno due indicazioni importanti:

1) la dimensione della ripresa elettorale del partito (se ripresa ci sarà);

2) il grado di preparazione del nuovo gruppo dirigente per riportare il Pd alla guida del paese quando si presenterà l’opportunità.

E’ dunque importante per il Pd arrivare ben preparato a queste elezioni. A questo riguardo può scegliere tra due strategie. La prima è quella di optare per una battaglia essenzialmente identitaria e di opposizione al governo in carica: se condotta efficacemente, può produrre buoni risultati elettorali. Nel passato questo approccio è stato perseguito con successo dal Movimento Cinque Stelle, la Lega e, più recentemente, da Fratelli d’Italia. Il va sans dire che i contenuti della strategia del Pd sarebbero molto diversi rispetto a quelli dei partiti sopra menzionati, ma in termini di tattica politica ci sarebbe un certo numero di similarità.

Il limite di una strategia identitaria è che rischia di ripetere l’errore fatto dai diversi Conte, Salvini e Meloni, per cui, vinta la battaglia, ci si ritrova impreparati a combattere la guerra. Si pensi al riguardo alla cattiva gestione del PNRR da parte del governo Meloni o al surreale negoziato sul deficit pubblico del governo gialloverde con la Commissione nel 2018 (partiti con l’idea di far sfracelli sull’euro, Conte e Salvini finirono per richiedere un deficit del 2,4%, per poi accettare di scendere al 2,04%).

Di conseguenza, se, oltre ad ottenere un buon risultato elettorale, il Pd vuole mostrare che, una volta tornato al governo, può produrre un valore aggiunto significativo per il paese, deve andare oltre la battaglia identitaria e di opposizione e dotarsi di una strategia più articolata, in grado di proporre soluzioni ambiziose, coerenti e nel contempo realizzabili (il che presuppone che altre forze possano farle proprie e che possa realizzarsi un consenso maggioritario attorno ad esse).

In cosa potrebbe consistere una tale strategia? Anzitutto bisognerà distinguere tra le posizioni di principio (perfettamente legittime e condivisibili, ma che non vanno molto lontano, come la recente proposta – bocciata – di una tassa patrimoniale a livello europeo per aumentare le risorse proprie dell’UE) e quel che si può effettivamente ottenere in un negoziato europeo.

Definire le posizioni di principio è relativamente facile. A livello europeo, l’opposizione al sovranismo e la richiesta contenuta nel programma di Elly Schlein di “un’Europa federale capace di unire le diversità, un’Europa sociale che riduce le diseguaglianze, un’Europa democratica che difende i diritti fondamentali e autorevole nel mondo” faranno sicuramente presa tra gli elettori di centro-sinistra.

Più complicato è invece passare alle soluzioni ambiziose, coerenti e nel contempo realizzabili. Per quel che riguarda la dimensione europea, invece di compilare una lunga lista di desiderata, bisognerebbe fare un salto di qualità e ragionare piuttosto, come ha recentemente proposto Marco Buti, in termini di beni pubblici di cui l’Europa ha bisogno. Rientrano nella definizione di beni pubblici europei l’autonomia strategica (che richiede tra l’altro una politica di difesa comune), la gestione condivisa delle politiche ambientali, la ricerca fondamentale e le politiche industriali in settori strategici. Questi beni pubblici consentirebbero all’Unione di meglio conciliare agenda domestica e azioni globali, affrontare con più efficacia crisi internazionali siano esse di natura geopolitica (per esempio l’invasione russa dell’Ucraina) e/o economico-sociale-ambientale (si pensi ai flussi migratori), esercitare un ruolo di leadership nella transizione verde e ridurre il gap tecnologico con Stati Uniti e Cina (per una discussione più approfondita e articolata sui beni pubblici europei, rinvio al bel libro di Marco Buti,  “Jean Monnet aveva ragione? Costruire l’Europa in tempi di crisi ”, Egea).

Per rafforzare/creare questi beni pubblici cosi importanti per l’Europa, l’Unione deve disporre di un livello di risorse proprie all’altezza del compito. E su questo si dovrebbe aprire un ampio confronto che dovrebbe coinvolgere non solo le forze progressiste e ambientaliste, ma anche le varie componenti della cosiddetta ” maggioranza Ursula ”, che in linea di principio concordano sulla necessità/utilità di questi beni pubblici. Cosicché se l’idea di una patrimoniale europea da utilizzare per il loro finanziamento venisse respinta, coloro che vi si oppongono avranno l’obbligo di fornire proposte alternative su come ottenere le risorse necessarie e giustificarle in termini di equita’ fiscale. E se non lo fanno, dovranno spiegarne il perché. Perseguendo questo approccio forse non si giungerà a un accordo sulla patrimoniale tout court, ma potrebbero comunque affermarsi forme progressive di tassazione per il finanziamento dei beni pubblici europei.

Mentre è vero che per creare/rafforzare i beni pubblici di cui ha bisogno l’Europa, la decisione ultima spetta agli stati, i partiti e i gruppi del Parlamento Europeo hanno cionondimeno un ruolo essenziale a monte, al fine di creare il consenso sulla loro importanza e su come dovrebbero essere finanziati. Se il compito viene lasciato ai soli governi, il rischio e’ che una tale scelta porti ad accordi intergovernativi, che finirebbero per ridurre l’ambizione e sminuire l’efficacia dei beni pubblici europei (com’è già successo nel passato). Per mantenere ambizione e efficacia, c’e’ invece bisogno invece di un contratto di fiducia permanente, che può essere raggiunto solo attraverso un accordo tra le forze politiche non sovraniste. Per questo sarebbe importante che il Pd, che quasi certamente sarà in Italia il partito pro-europeo più forte, si facesse promotore di questo approccio. Un approccio che tra l’altro gli consentirebbe di perseguire gli obiettivi di unione delle diversità, riduzione delle diseguaglianze e di autorevolezza nel mondo che, come menzionato sopra, sono indicati come priorità dalla segretaria del Partito democratico.

L’altro aspetto cruciale per il Pd al fine di disporre di una strategia nel contempo ambiziosa e credibile riguarda la definizione della relazione da instaurare tra l’Italia e l’Unione Europea. In Italia questa relazione è sempre stata problematica. Nei momenti di eurottimismo, le istituzioni europee erano viste come uno strumento di modernizzazione del paese (” ce lo chiede l’Europa ”) in grado di sconfiggere le resistenze di una classe politica autoreferenziale e di interessi costituiti che cercavano di difendere i propri privilegi. Nei momenti di europessimismo, invece, le istituzioni europee erano considerate come strumenti volti a imporre politiche sbagliate e contrarie agli interessi del paese (“ce lo impone l’Europa ”). Raramente però ci siamo basati sul principio “ce lo dice il governo e l’Europa è d’accordo e ci sostiene”. Ci sono stati dei casi, come il primo governo Prodi o, recentemente, il governo Draghi, ma sono stati più l’eccezione che la regola.

In un recente saggio apparso su. Mulino on line (“Come sbloccare la politica italiana”), Michele Salvati ha argomentato convincentemente che a quest’oggi né il governo italiano né le istituzioni europee dispongono da sole del capitale politico necessario per modernizzare lo stato e dinamicizzare l’economia italiana. Solo se agiscono di concerto possono cercare di raggiungere un tale obiettivo. Ma affinché si crei il consenso necessario, l’iniziativa deve partire dal livello nazionale (“ce lo dice il governo italiano e  l’Europa è d’accordo e ci sostiene”), per evitare appunto che quel “ce l’impone l’Europa” finisca per disgregare possibili coalizioni riformatrici.

In un paese con una bassa crescita, una produttività stagnante, in declino demografico, con un debito pubblico molto elevato e una burocrazia inefficiente, nel futuro la relazione che si stabilirà l’Europa sarà dunque decisiva, in particolare se il nostro paese vuole contrastare il declino e rilanciare crescita e produttività. A mio avviso, come ho argomentato nel passato su questo giornale, per avere una strategia credibile e coerente, il Pd deve coniugare crescita economica, transizione ambientale e riduzione delle diseguaglianze e su questa base dovrebbe definire il tipo di relazione strategica tra il nostro paese e l’Europa.

Non tutti pero’ nel Pd sembrano essere d’accordo su questo punto. Recentemente su Repubblica Vannino Chiti, Paolo Corsini, e Franco Monaco, pur non misconoscendo” l’esigenza di ricette tese a produttività e crescita”, hanno argomentato che quel che deve qualificare politicamente il Pd in campo economico e sociale devono essere “la giustizia sociale e ambientale”. L’intendance suivra diceva Napoleone. Tuttavia, soprattutto in un paese come l’Italia, che è in ristagno da decenni, crescita e produttività non possono essere trattate come l’intendance: senza crescita sarà molto più difficile conseguire “la giustizia sociale e ambientale”. Inoltre, retrocedere crescita e produttività a priorità secondarie rischia di produrre a un importante disallieamento di obiettivi tra l’Italia e l’UE e con essi il ritorno al pericoloso “ce l’impone l’Europa”.

Non mi illudo che una seria riflessione sui possibili beni pubblici di cui necessita l’UE e sul tipo di relazione da instaurare tra un futuro governo riformista in Italia e le istituzioni europee riescano a portare molti voti. Probabilmente battaglie identitarie e scelte simboliche (come quella di avere cinque capolista donna nelle liste del Pd) hanno un impatto più significativo. Tuttavia, disporre anche di una strategia credibile e articolata aiuterebbe elettoralmente il Pd, in quanto una parte degli elettori e’ sinceramente interessata alla prospettiva europea e a come l’Italia può trarre beneficio dal rafforzamento dell’Unione. Questa parte di elettorato sceglierà dunque la forza politica che meglio riuscirà a coniugare idealità europee, valori, coerenza programmatica e pragmatismo. Inoltre, poiché le elezioni europee sono ben più di un grande sondaggio, una strategia credibile e articolata puo’ rivelarsi molto utile sul che fare nel periodo post-elettorale, in Europa come in Italia.

Un  anno in politica può essere un’eternità, ma per arrivare a formulare delle proposte convincenti sui punti sopra menzionati un anno può essere appena sufficiente. Sarebbe bene che il Pd cominciasse a lavorarci già da ora.

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