Gattopardismo padano
Vincono i soliti. Al congresso veneto della Lega, Zaia esulta per un partito che non c'è
Il neosegretario regionale Stefani è tutto fuorché Liga, rinnovamento e appeal elettorale. La base è affranta, FdI aspetta al varco. Ma non ditelo a Salvini e al governatore
La voce più surreale è quella del presidente. “Prima della Lega viene sempre la Liga”, la carica di Luca Zaia. “Questo è l’inizio del rinascimento”. Di più. “Davanti a noi c’è una prateria: dobbiamo evangelizzare gli infedeli”. Peccato che al tanto atteso congresso regionale del Carroccio, il vecchio partito sia finito béco e bastonà – cornuto e mazziato, fuor di dialetto. Più che alla rinascita, siamo davanti al gattopardismo veneto: cambiare (poco, sparigliando tutto) affinché tutto resti com’è. E la prateria elettorale, beh quella in effetti c’è. Ma per gli altri: i meloniani non vedono l’ora del 2025. Gli uomini di Salvini non vedono oltre i propri applausi.
Sabato è andato tutto come da copione. Ha vinto Alberto Stefani, che da commissario si evolve così in segretario regionale. Anzi, ha stravinto: 63 per cento dei voti, contro il 35 dello sfidante Franco Manzato. “Torneremo a fare politica con gioia”, il sorriso da pubblicità del neoeletto, 31 anni e più scarpe che piedi: sindaco nel Padovano, deputato a Roma, ora pure l’incarico in Veneto. A incoronarlo ci sono Zaia in persona e Salvini in remoto. Ma soprattutto Bitonci e Ostellari, suoi compagni di merende da Prato della Valle a Montecitorio: i veri registi occulti dell’operazione congresso. Che ricordiamolo, sul piano strategico è stata da manuale. Perché Stefani era inviso alla base, contava su numeri risicati e in origine avrebbe dovuto affrontare un candidato ben più grosso di lui. Talmente ingombrante, che al momento di salire sul palco – racconta il Gazzettino – il povero Manzato è stato presentato come “Franco Marcato”: tra svarione e assonanza, un ibrido spettrale col bulldog Roberto. Il grande assente, tagliato fuori, tradito. Come la pancia della Liga.
Che i ribelli abbiano buttato al vento un’occasione storica è presto detto. “Non credo di andare avanti in politica: ora tocca gli altri”, ha commentato Manzato, buttato sul carro da terzi e già dissolto più che uscito di scena – una sorta di Michetti trevigiano, tanto per rievocare altri suicidi coi fiocchi. La frittata è fatta. Marcato però si è risparmiato il teatrino e a bocce ferme non ha escluso di lasciare il partito. Portando con sé un’emorragia di consensi, perché l’assessore allo Sviluppo economico fu il più votato in Consiglio regionale alle scorse elezioni. “Contro Stefani avrei vinto io”, continua a ribadire. E garantisce di essere pronto a fare la guerra al Carroccio, se dovesse continuare la stagione delle purghe. Intanto l’effetto domino è già scattato: a Castelfranco Veneto, terzo comune della Marca, il sindaco leghista Stefano Marcon si è dimesso per direttissima subito dopo il congresso. “A qualcuno hanno ucciso un sogno”, scrive, riprendendo le parole di Marcato. “A me l’hanno trasformato in un incubo: ancora niente autonomia e sempre meno nord. Non meritiamo di essere tenuti sotto scacco da certi figuri per questioni meramente personali”. Poi cita i bravi manzoniani, Matteo in versione don Rodrigo. E in un attimo Marcon diventa macchietta social, acclamato da militanti e amministratori locali. Presto altri potrebbero seguire il suo esempio.
Ma per i bravi tutto va bene. Passi l’euforia di Stefani, che sembra parlare a una convention di startupper – “punti programmatici, futuro, armonia” – più che all’anima del territorio. E però, Zaia: ci è o ci fa? Com’è possibile che il governatore più amato d’Italia non si renda conto che la Lega per Salvini premier s’è mangiata la Liga, al congresso, e che i voti della Liga se li mangeranno altri, alle prossime regionali? FdI è ormai la prima forza politica in Veneto. E perfino la fragile area Pd, ringalluzzita dai successi di Verona e Vicenza, rischia di rosicchiare preferenze. Le europee 2024 saranno l’ultimo banco di prova. Poi toccherà a Palazzo Balbi: se Zaia vi correrà per la quarta volta – “me lo chiede la gente”, dice – il suo nome resta talmente forte da fare reparto da solo. Con un partito a pezzi, forse vale anche di più. Alla quinta, scatta la nomina del Maggior consiglio. Rinascimento, appunto. Mentre il Carroccio è medioevo.