patti tra diavoli

Salvini apre al quarto mandato di Zaia, e così lo tiene in pugno

Francesco Gottardi

“Se uno è bravo, perché non può ricandidarsi?”, dice il ministro a Napoli, strizzando l’occhio pure a De Luca. La Lega ha perso il territorio e forse sta trovando il modo per riprenderselo

Matteo Salvini rompe il ghiaccio con abile mossa, a casa del rivale. “Se un governatore o un sindaco è bravo e ha già fatto due mandati”, la domanda è su De Luca, “perché non può ricandidarsi se i cittadini lo riscelgono?”. Piccola aggiunta. “Se uno è bravo, può farne anche quattro”. E toh guarda, quattro sarebbero giusto quelli di Luca Zaia – altri casi di simile longevità non ce ne sono – se si ripresenterà alle regionali del 2025. Le dichiarazioni di Salvini arrivano en passant, quasi uscendo dalla porta, durante il congresso dell’Unione generale del lavoro a Napoli. Confortano i capipopolo del centrosinistra nel sud: anche Emiliano in Puglia ha lo stesso problema. Ma parlano dritto al cuore del Veneto. Il tempismo è ben calibrato. Soltanto sabato scorso Zaia rendeva onore al nuovo segretario regionale del Carroccio, quell’Alberto Stefani che di Matteo è figlioccio politico e che al territorio piace come un bicchiere di prosek croato. Straparlava, il doge. “È tempo di aprire ai giovani, siamo all’inizio di un nuovo rinascimento, in nome della Liga”. Roba da non credere, si indignava la base dissidente. Scaricata sul proprio sul più bello, dal suo mentore più venerato. E infatti, più che da credere, c’era da aspettare. Secondo la pura logica del do ut des: Zaia rinnega la sua nomea di amministratore imparziale, volta le spalle ai suoi e dà la spinta decisiva agli yes men imposti da Roma; Salvini gli spalanca le porte del governatorato assoluto. Eccola, la contropartita. È un doppio patto col diavolo, che magari farà storcere il naso a qualche elettore. Ma poggia su una serie di constatazioni molto pragmatiche. Primo: la Lega è in conclamata crisi di consenso.

 

Anche in Veneto, suo storico serbatoio di voti. E fra meno di due anni, a meno di sorprendenti buone notizie dalle europee, il rischio concreto è di presentarsi a Palazzo Balbi con un candidato di Fratelli d’Italia. I vertici del partito non lo dicono, i militanti sì: sarìa ‘na tragedia. Anche in termini di seggi in Consiglio. I vertici del partito non dicono nemmeno (ma lo sanno) che la segreteria Stefani non porterà nuova acqua al mulino – anzi, sarà già tanto se non ne perderà ancora. E dunque c’è un solo modo di mantenere la bandiera ben piantata: lo Zaia IV. Perché la popolarità del presidente più votato di sempre resta solidissima. Nemmeno i rampanti meloniani potrebbero opporsi alla sua candidatura. Soltanto la legge, per ora. Che già a Luca va di lusso: è in carica dal 2010, ma la riforma del 2012 dispone che “il limite ai mandati si riferisce alle elezioni successive all’entrata in vigore del provvedimento”. Di fatto, cioè, Zaia sta scontando adesso il secondo. Il colmo è che questa legge regionale era partita dalla stessa giunta del governatore. “Noi in Veneto siamo gli unici ad aver introdotto il blocco dei due mandati”, si vantava Zaia nel 2018, dicendo che “i grillini, se vorranno portare avanti una simile iniziativa in Parlamento, saranno miei discepoli”. Ma si sa: i tempi cambiano, il trasformismo è uno sport che aiuta a sopravvivere e all’epoca coi pentastellati c’era un contratto di governo.

 

Oggi invece, l’aiutino dal ministro, Salvini liquida il passato in “quella roba dei Cinque stelle, due mandati e poi a casa”. Mica di Zaia. Che intanto, negli anni, s’è ben ravveduto. “Mi capita ogni giorno che la gente mi fermi per strada e mi chieda di ricandidarmi”, poveraccio anche lui. C’è poi un altro aspetto cruciale. A Zaia piacerà pure fare lo Zaia, il salvatore perenne di un partito senza più numeri. Ma stavolta sarà a caro prezzo: la politica nazionale, visto il consenso bipartisan che si va formando, è l’unica in grado di garantirgli la revoca al limite dei due mandati in tempo utile. Il che vuol dire mettersi nelle mani di Salvini. Mentre gli attenti proseliti del segretario – di nuovo: ne parla al sud, mica al raduno di Pontida – mettono insieme un fronte quanto mai spurio, ma di potenti uomini di territorio. Quel che Matteo non è più da un pezzo, forse non è mai stato. E forse non avrà bisogno di diventare mai.

Di più su questi argomenti: