Le eredità infelici
Dai Viceré ad Agnelli, aspettando il Cav. Testamenti di promesse e inganni
In attesa che siano svelate le ultime volontà di Silvio Berlusconi, una carrellata sulle faide che spaccano le famiglie del capitalismo italiano. Del Vecchio e Benetton, Garavoglia e Vitaloni
Il testamento, aprite il testamento per carità, così mettiamo fine a questo voyeurismo mortuario: dopo l’ostensione del corpo di Cesare, l’esibizione della sua eredità. Sapremo chi comanderà in casa Berlusconi, come sarà divisa la proprietà, chi terrà il timone, quali munifiche donazioni andranno alla donna che lo ha assistito con tanta devozione. C’è lavoro per avvocati, giornalisti, attaccabrighe, poi birra e gazzosa in quantità agli avventori del bar Italia. Basta che non finisca come nei “Viceré”, anche se tutti ormai sembriamo proprio quei passanti che “cominciarono ad accrocchiarsi”. Eccoli all’opera:
“‘Chi è morta?… La principessa?… Al Belvedere?…’ Giuseppe si stringeva nelle spalle, avendo perso del tutto la testa; ma domande e risposte s’incrociavano confusamente tra la folla: ‘Era in campagna?… Ammalata da quasi un anno… Sola?… Senza nessuno dei figli!’. I meglio informati spiegavano: ‘Non voleva nessuno vicino, fuorché l’amministratore… Non li poteva soffrire…’. Un vecchio disse, scrollando il capo: ‘Razza di matti, questi Francalanza! …Sette figliuoli, possiamo contarli: il principe Giacomo e la signorina Lucrezia che è in casa con lui: due; il Priore di San Nicola e la monaca di San Placido: quattro; donna Chiara, maritata col marchese di Villardita: e cinque; il cavaliere Ferdinando che sta alla Pietra dell’Ovo: sei; e finalmente il contino Raimondo che ha la figlia del barone Palmi… Poi vengono i cognati, i quattro cognati: il duca d’Oragua, fratello del principe morto; Padre don Blasco, anch’egli monaco benedettino; il cavaliere don Eugenio e donna Ferdinanda la zitellona…’. L’ebanista frattanto, in mezzo a un cerchio di gente attenta come alla storia dei Reali di Francia, continuava a enumerare il resto della parentela: il duca don Mario Radalì, il pazzo, che aveva due figli maschi, Michele e Giovannino, da donna Caterina Bonello, e apparteneva al ramo collaterale dei Radalì-Uzeda; la signora donna Graziella, figlia d’una defunta sorella della principessa e moglie del cavaliere Carvano, cugina carnale perciò di tutti i figliuoli della morta; il barone Grazzeri, zio della principessa nuora, con tutta la parentela; e poi i parenti più lontani, gli affini, quasi tutta la nobiltà paesana: i Costante, i Raimonti, i Cùrcuma, i Cugnò… Ma, sul più bello, don Blasco, il quale aveva tenuto d’occhio la valigia quasi ci fosse dentro roba di contrabbando, lo tirò per la manica, domandando: ‘E il testamento?’”.
Si scoprì che la bisbetica principessa aveva privilegiato il prediletto contino Raimondo il quale nemmeno s’era mosso da Firenze, scatenando la guerra degli eredi. Il gran romanzo di Federico De Roberto, affresco di un cambio d’epoca con la rampante borghesia che soppianta la morente aristocrazia siciliana, è un romanzo degno di figurare insieme a “I Buddenbrook” di Thomas Mann, anzi di precederlo non solo in ordine cronologico. Ce ne sono di storie da raccontare tra i moderni principi del denaro. Nel mondo intero, dai Rockefeller ai Ford, dai Rothschild ai Porsche, si scrivono volumi e articoloni. Noi appassionati di grandi famiglie del capitalismo non riusciamo a sottrarci. I loro destini riempiono la storia patria e anche la cronaca. Sempre al centro c’è quell’atto burocratico che da Roma antica a oggi accompagna il passaggio delle generazioni e dei cicli storici. Così, mentre si sta per aprire la cassaforte del Cavaliere, raccontiamo a vol d’uccello le sorti familiari di grandi e piccoli. Non solo i Berlusconi e gli Agnelli, ma i Del Vecchio, i Benetton, i Caprotti, i Garavoglia quelli della Campari, i Vitaloni quelli delle patatine San Carlo, gli ultimi in ordine di tempo. Quanto più la famiglia si estende tanto più diventa difficile ogni passaggio generazionale. I figli spesso non seguono le orme dei padri e talvolta fanno bene, come è successo in casa Ferrero: il patriarca la voleva protetta nello scrigno di Alba e l’erede per caso, un tragico caso, quel Giovanni che intendeva fare solo lo scrittore, ha costruito una vera multinazionale. Molti non ce la fanno (i Lucchini, i Merloni, i Ferruzzi), altri cambiano mestiere come i Pesenti, i Falck, i Marzotto, i De Benedetti. Storie di un’Italia che si trasforma più rapidamente di quanto si dica. Ma adesso concentriamoci sul tema principale: le eredità della discordia.
Chi potrebbe essere oggi un nuovo contino Raimondo? Ci sono eredi più o meno inaspettati ai quali vada “la roba”, quella che Mastro don Gesualdo teneva con amorosa brama? Aspettando il testamento dell’anno, ecco un catalogo dei dissapori; abbiamo scelto l’ordine alfabetico, ma gli Agnelli meritano comunque il primo posto. La contesa va avanti ormai da decenni e si chiuderà tra un anno o forse più. Nell’aprile 1996 Gianni Agnelli dona al nipote John Elkann, appena ventenne, il 24,87 per cento della Dicembre, la cassaforte in cima alla verticale del potere famigliare e imprenditoriale. L’Avvocato conserva la piena proprietà del 25,37 per cento mentre sotto forma di nuda proprietà il resto va alla moglie Marella, alla figlia Margherita e a John detto Jaki, che aveva avuto dal primo marito Alain Elkann. Una sorpresa per molti, non in casa Fiat: dopo la morte prematura di Giovanni Alberto figlio di Umberto Agnelli, l’Avvocato cercava un nuovo erede seguendo quel che aveva fatto suo nonno e applicando il precetto del fondatore: in questa casa deve comandare uno solo. E la scelta spetta al pater familias in piena linea con il diritto romano che consentiva anche di saltare la consanguineità e di adottare il preferito. Nel 2003, con la morte di Gianni e dopo un anno con quella di Umberto, John resta pienamente al comando e cominciano i guai. Marella cede la sua quota al nipote che così ha in mano il 58 per cento. Nel 2004 Margherita vende tutto alla madre.
Quando nel 2019 muore anche la principessa Caracciolo, l’intera Dicembre passa agli Elkann: John con il 60, Lapo e Ginevra con il 20 per cento ciascuno. Ma a questo punto la tensione tra Margherita e il figlio maggiore assume i toni della tragedia greca. Il patto che aveva suggellato la successione viene contestato, Margherita ritiene che non siano stati garantiti i diritti dei cinque figli avuti con il secondo marito Serge de Pahlen, francese di origine russa già manager della Fiat, amico di Vladimir Putin, seguace della chiesa ortodossa e in rapporti con il Kgb secondo il libro di Catherine Belton, già corrispondente del Financial Times a Mosca, contestato da una schiera di avvocati. Ora sono al lavoro i principi del foro a Torino e in Svizzera dove s’è spostata la singolar tenzone. Se ne parlerà ancora a lungo. Comunque vada a finire, nessuno potrà rimettere in discussione la guida della famiglia e del gruppo Exor che tra Stellantis, la Ferrari e tutto il resto (non esclusi l’Economist e la Repubblica) fattura 180 miliardi di euro. Questione di soldi, di rango, ma anche di più se è vero che Margherita si era fatta l’idea che dovessero essere anche i Pahlen e non solo gli Elkann a ereditare l’impero di famiglia.
Colui che ha preso le redini dei Benetton, il “giovane” Alessandro come viene conosciuto anche se ormai ha sessant’anni, ha dovuto attendere e faticare, attraversando le conseguenze della scomparsa di Gilberto, colui che oltre i maglioncini colorati ha costruito un impero delle infrastrutture. Fin dall’inizio i quattro fratelli Benetton hanno diviso in parti eguali la proprietà raccolta nella holding Edizione e articolata in quattro scatole finanziarie: Regia per Gilberto, Evoluzione per Giuliana, Proposta per Carlo e Ricerca per Luciano. Ciascuno di loro, a sua volta, regolava sotto forma di nuda proprietà i diritti dei propri figli. Con la morte prima di Carlo poi di Gilberto, è diventato più evidente quanto si sia allargata la famiglia. Le quattro casseforti adesso sono divise in sedici eredi diretti e Alessandro ha tre figli da Deborah Compagnoni, l’ex campionessa di sci, quindi la moltiplicazione continua. Di qui la necessità di un nuovo assetto per proteggere la proprietà: quattro tipi di azioni, una per ogni ramo e maggioranze dei due terzi per operazioni che riguardino i tre pilastri del gruppo, Atlantia, Autogrill, Benetton Group. Un passaggio particolarmente importante perché l’intero assetto è destinato a cambiare sotto la guida di Alessandro. Il secondogenito di Luciano è rimasto a lungo in una posizione distaccata, ha sviluppato un proprio percorso finanziario, con la sua società 21 Investment, e c’è voluto tempo, ci sono voluti passaggi drammatici prima che il suo ruolo venisse accettato dal resto della famiglia. Soprattutto ha dovuto superare quella tragedia che lascia lacerazioni profonde: il crollo del ponte Morandi a Genova. Un evento nient’affatto inaspettato come ha ammesso Gianni Mion, il manager che, accanto a Gilberto, ha curato gli affari di famiglia, prima di essere esautorato.
Sarà un contino Raimondo l’ultimo figlio di Berlusconi quel Luigi in grisaglia vestito ai quali tutti attribuiscono le doti del papà e il fascino della mamma? Intanto Pier Silvio riafferma la propria identità: “Sono figlio di mio padre” scrive alla Repubblica. Quanto a Marina, la Primogenita, è lei ora la capofamiglia. Si dice che il Cavaliere, nonostante tenesse al capezzale una foto dell’Avvocato (così raccontava come sempre tra il vero e l’inverosimile) non voleva che la sua casa finisse lacerata dalla discordia come la tribù Agnelli. Per questo aveva disposto una distribuzione equa, unicuique suum. A se stesso padre e fondatore il 61,2 per cento diviso in quattro holding (Prima, Seconda, Terza e Ottava), a Marina il 7,65 per cento (holding Quarta), a Pier Silvio la stessa quota nella holding Quinta, ai tre figli di Miriam Bartolini (in arte Veronica Lario) sempre la stessa quota ciascuno, ma in un’unica scatola che si chiama H14. L’incognita che angoscia il circo politico mediatico è cosa (e quanto) avrà lasciato alla “quasi moglie” Marta Fascina. Ma la vera questione è quali equilibri proprietari ci saranno tra i figli una volta distribuite le quote azionarie di Silvio. Nessun cambio nella cabina di pilotaggio, adesso, Marina resta ancora per un anno a capo della Fininvest; tuttavia ci sono ancora molte variabili in attesa del testamento.
Chiediamo al lettore di seguirci in questo labirinto giuridico e ci scusiamo di semplificare per non perderci. Della quota di Silvio, il 40 per cento viene distribuito tra i cinque figli (8 per cento a testa), così vuole la legge. A questo punto Marina e “Pier” avranno il 32 per cento di Fininvest, ma gli altri fratelli con il loro 46 diventeranno i primi azionisti di un gruppo che oggi si regge su tre gambe: la televisione con Mediaset guidata da Pier Silvio, i libri con Mondadori affidata a Marina, la finanza con il 30 per cento della Banca Mediolanum che il padre Ennio Doris ha lasciato al figlio Massimo. Il patrimonio ammonta a oltre sei miliardi di euro e la banca vale in borsa più della tv e dei libri. Ma attenzione, resta quel 20 per cento di titoli dei quali il Cavaliere poteva decidere come voleva. A chi andrà? Sarà diviso equamente, privilegerà qualcuno degli eredi, uscirà in parte fuori dalla famiglia magari a “Fìdel” Confalonieri, allo scudiero di tante battaglie sportive Adriano Galliani o alla donna che lo ha assistito negli ultimissimi anni della sua vita? Quanto a lungo si sono intrecciati l’arme e gli amori nella vita del Cavaliere. Lo saranno ancora?
Hanno trovato un punto d’incontro le signore Esselunga eredi di Bernardo Caprotti, l’uomo del supermarket all’italiana. Prima di morire il noto imprenditore ha diviso tutti i suoi beni con cura, allo scopo di evitare “ulteriori contrasti e pretese”, consentendo inoltre a tutti i suoi familiari (anche ai due nipoti Fabrizio e Andrea, figli del fratello minore Claudio) di vivere in pace e in modo “dignitoso”. In realtà il testamento diventa la prova di quanto le divisioni siano profonde. La decisione di rivedere la prima versione risale a luglio 2010, quando Caprotti licenzia Paolo De Gennis, vice presidente di Esselunga e storico manager. La sua uscita dopo che l’imprenditore aveva cacciato il figlio Giuseppe, fa deflagrare anche il litigio con la prima figlia Violetta, fino ad allora rimasta al suo fianco. La famiglia si spacca e Bernardo decide di nominare come uniche eredi universali la figlia Marina e la seconda moglie Giuliana che ottengono il controllo del Supermarket italiani, la holding del gruppo ed il 55 per cento della Villata, immobiliare che raccoglie uffici, magazzini e supermercati. Giuseppe e Violetta, invece, si spartiscono il restante 30 per cento di Esselunga e il 45 dell’immobiliare. Alla storica segretaria, Germana Chiodi, Caprotti lascia 75 milioni di euro, ossia la metà dei suoi risparmi privati. La fedele collaboratrice ha maturato una pensione da dirigente, manteneva un contratto da consulente con Esselunga e aveva già avuto donazioni per dieci milioni di euro più due quadri valutati da Sotheby’s 200 mila euro l’uno.
I dissensi continuano quando emerge che il valore di Esselunga è tre volte quello di La Villata. Riscontrata una “lesione della legittima” per i figli di primo letto, nel giugno 2017 viene stipulato un accordo per sanare ogni pretesa futura: il ricorso alla Borsa con la quotazione di Esselunga entro quattro anni. Marina, che lavora a tempo pieno in azienda con il marito Francesco Moncada, diventa vicepresidente e la madre, Giuliana presidente onorario. Giuseppe e Violetta non hanno invece nessun ruolo operativo. Ad un certo momento Marina decide di sospendere la quotazione in Borsa e liquidare i fratelli, contando su un diritto di prelazione. E’ così necessario ricorrere ad un collegio arbitrale; dopo 14 mesi, nel marzo 2020 stabilisce che il gruppo vale 6,1 miliardi di euro. Marina Caprotti e la madre Giuliana Albera possono acquisire direttamente la quota in mano a Giuseppe e Violetta, per 1,83 miliardi di euro (915 milioni a testa) e arrivare al 100 per cento del colosso della grande distribuzione. Adesso comandano loro, smentendo le voci che vorrebbero far vendere i supermercati a uno dei tanti gruppi mondiali che affilano i coltelli e lucidano le forchette.
Non è un figlio, ma un manager l’uomo al centro delle controversie in casa Del Vecchio, un esterno alla famiglia trattato come un figlio, Francesco Milleri che, da semplice consulente poi fidato consigliere, nel 2016 diventa numero due di Luxottica e dopo la morte del suo mentore è il capo e la guida di un gruppo che vale circa 80 miliardi di euro tra immobili della società Convivio, ville e yacht, il 29 per cento di Mediobanca, il 6 per cento di Assicurazioni Generali e il 32,2 per cento di Essilor Luxottica che da solo vale in borsa circa 26 miliardi. E qui è il nocciolo della questione che divide gli eredi a un anno dalla morte del fondatore Leonardo. Ci scusiamo con i lettori che lo sanno già, ma dobbiamo ricordare che il Foglio già molti mesi fa, nel freddo gennaio, ha scritto quel che ormai è su tutti i giornali: quattro figli ai quali il fondatore aveva distribuito quote pressoché paritarie non accettano quello che ritengono un privilegio indebito a un manager entrato in casa solo molto tardi. Vogliono un ruolo attivo, loro, non basta incassare profitti anche se estremamente pingui.
Secondo il testamento di Del Vecchio, rivisto dopo aver sposato per la seconda volta Nicoletta Zampillo, gli otto eredi hanno avuto il 12,5 per cento ciascuno della Delfin, la cassaforte lussemburghese: sono i sei figli (Claudio, Marisa e Paola avuti dalla prima consorte, Luca e Clemente avuti da Sabina Grossi che non ha mai sposato, Leonardo Maria nato dalla Zampillo), più l’ultima moglie e il figlio che lei ha da un altro marito. Tutti insieme si dividono il ricco portafoglio. Tutto bene? Non proprio. Luca, Clemente, Paolo e il primogenito Claudio hanno accolto il testamento con beneficio d’inventario. Troppe sarebbero le tasse di successione da pagare, troppi gli immobili finiti alla signora Zampillo e troppe le azioni lasciate a Milleri (per un valore di 270 milioni di euro) nella società della quale è anche presidente e amministratore delegato, cioè Essilor Luxottica. In più, lo stesso manager ha in mano le chiavi della cassaforte. Secondo il testamento le decisioni vanno prese con l’88 per cento, così da escludere qualsiasi colpo di testa (o di mano). Ma l’inventario adesso è tutto da rivedere, ce ne vorrà per un anno almeno. “Non lascerei mai a un figlio un’azienda così grande”, aveva detto Leonardo. Alcuni dei suoi rampolli tuttavia si chiedono adesso perché lasciarlo a un estraneo? Milleri in questo anno ha macinato utili (ben 77 milioni testa) che non sono bastati però a placare gli spiriti della famiglia. Del resto la proprietà, insieme alla libertà, è il sale del capitalismo.
Luca Garavoglia è il figlio minore, ma non assomiglia affatto al contino Raimondo. Tutti conoscono la Campari, non tutti conoscono lui. L’azienda dell’aperitivo rosso rubino, pardon rosso Campari, non ha mai avuto bisogno di ottenere un punteggio da una società di rating, bastava la parola e tutti in banca e in borsa le davano credito. Dal bar in piazza Duomo aperto nel 1860 al Campari Soda, gran successo degli anni 30, dalle bevande che accompagnano il miracolo economico fino agli spritz diventato una mania tra i millennial, oggi è anche tra i grandi degli spirits con i marchi Glen Grant, Grand Marnier, Averna. Nel 1982 l’ultima erede della famiglia vende a Domenico Garavoglia, che muore nel 1992 lasciando le redini alla moglie Rosa Anna Magno e al figlio Luca di appena 23 anni. Terminata la Bocconi, nel 1994 il giovanotto diventa presidente del gruppo, riprende l’espansione avviata dal padre e pezzo dopo pezzo, bottiglia dopo bottiglia, costruisce una multinazionale e mette insieme un patrimonio da quasi quattro miliardi di euro. Appartato, concentrato, sorriso aperto e occhialini da intellettuale, ha finanziato la fondazione Open di Matteo Renzi. Va tutto per il meglio sui mercati mondiali, molto meno in famiglia. La sorella maggiore Maddalena infatti nel 2000 fa causa ai fratelli e alla madre accusandoli di essere stata estromessa con l’aumento di capitale deciso per finanziare l’espansione del gruppo. Sei anni dopo vince e viene liquidata con 100 milioni di euro. Dieci anni più tardi, alla morte della madre Rosa Anna Magno che ha nominato Luca e Alessandra suoi eredi universali, Maddalena, venuta a sapere che l’inventario dei beni materni era stato fatto in sua assenza, presenta una querela. Il processo penale si conclude un anno fa con l’assoluzione di tutti gli imputati. Ma ci sono ancora in ballo i processi civili ai quali viene messo fine nel marzo scorso con un pagamento di 50 milioni di euro. A questo punto, Luca e la sorella Alessandra con la loro società lussemburghese Lagfin possono controllare il 51 per cento della Campari che nell’ultimo bilancio registra vendite per quasi tre miliardi di euro e profitti per 333 milioni.
Forse occorre rovesciare la frase con la quale Lev Tolstoj comincia “Anna Karenina”, perché sono le famiglie infelici, non quelle felici, a essere infelici allo stesso modo, grandi o piccole che siano. Tra i Vitaloni, quelli delle patatine San Carlo, si è cominciato a litigare già da qualche anno. Alberto ha 83 anni e tre figli, Susanna, Francesco e Michele. Non riesce più a parlare a causa di un ictus. Otto anni fa aveva donato ai suoi tre eredi il 15 per cento della società, poi nel novembre scorso, dopo la morte della moglie aveva girato alla primogenita il 35,04 per cento così che Susanna possedesse la maggioranza dell’azienda che con 2.200 dipendenti e un fatturato da 315 milioni di euro controlla il 60 per cento dei salatini venduti in Italia. Per Francesco e Michele un vero affronto, accusano la Prescelta di aver circuito il vecchio padre. Finisce tutto in tribunale, ma non ci sono prove di imbroglio, emerge anche un testamento fino ad allora segreto che risale al 2015 nel quale Alberto Vitaloni, nel pieno delle sue facoltà, dichiara di voler lasciare il timone a Susanna. Ma non è finita, c’è un patto di sindacato e sarebbe stato violato, così è il padre padrone a pretendere 16 milioni di euro dai figli maschi. La proprietà non è un furto, ma spesso diventa una sciagura, anzi peggio, si trasforma in quella che potremmo chiamare la “maledizione dei Francalanza”.