un'estate danzereccia

Dove c'è Elly, c'è pop. Affinità-divergenze: da Renzi a Schlein, sotto il segno di Maria De Filippi

Andrea Minuz

Mentre l'ex premier si impegnava tantissimo per essere pop, partecipò anche ad "Amici, ma non era di sinistra, la segretaria canta e zompetta “Mon Amour” di Annalisa, tormentone fluido. Dal duetto con Cattelan al Pride, a lei l'impresa riesce bene

Naufraga il campo largo, esplode l’estate militante. Dopo la Cgil che scalda il pubblico nelle piazze, Elly Schlein (feat. Alessandro Zan) canta e zompetta “Mon Amour” di Annalisa, tormentone fluido, inno al poliamore, aggiornamento dance del refrain di Verdone, “n’omo ‘na donna ‘na donna n’omo”, la summer hit che piace a tutti, dal Pride all’acquagym sulle spiagge di Gallipoli. E’ l’immagine dell’egemonia pop della sinistra. Si perdono le regionali in Molise ma c’è voglia di stare insieme, di ballare, di cantare. Bisogna “procedere con l’agenda”, dice Schlein. C’è un’estate militante da lanciare, meglio del Cantagiro, del “Primavera Sound”, di un Festivalbar antifa’. Pare proprio che il pop sia il vero campo largo di questi primi mesi di nuovo, scintillante Pd. La piattaforma programmatica per rinsaldare i vincoli sociali di un elettorato in fuga. Ecco le conferenze stampa con citazioni da Diodato, Daniele Silvestri, Niccolò Fabi, o le performance al karaoke cantando “Occhi di gatto”, vecchio cartone giapponese anni Ottanta, reminiscenza di lunghi pomeriggi davanti a Italia Uno.

 

Ecco “Imagine” strimpellata al piano, in duetto con Cattelan, camicie optical, giacche colorate, sneakers. E giusto pochi giorni fa, ecco Schlein che si sbraccia e si scatena al concertone solidale, “Italy loves Romagna”, soprattutto Max Pezzali e vecchie hit degli 883, un tempo emblema del disimpegno, culmine dell’individualismo e del vuoto della provincia arcitaliana (con Max Pezzali bollato a destra, peggio che Battisti, sbandierando una sua vecchia tessera del Fronte della Gioventù presa quand’era adolescente, “ma solo per fare un favore a un amico del bar”, proprio come in una canzone degli 883).

Schlein sarà pure ondivaga e contraddittoria, spesso perde il filo, sguiscia tra calembour deleuziani, supercazzole vendoliane e vecchi “ma anche” veltronici. Forse è impalpabile, forse ancora poco matura, certo. Ma su una cosa mette tutti d’accordo: è pop. Renzi si impegnava tantissimo per essere pop, ma non era di sinistra. Letta non era né di sinistra né pop. L’impresa diventa allora esattamente questa: un Pd più a sinistra e più pop, antagonista e “simpatico”, anticapitalista e instagrammabile, impresa che pareva appunto disperata e impossibile. Proprio la parabola di Renzi sembrava anzi un monito: più si diventa pop, più diminuisce il tasso di sinistra percepita (col problema che però non si può essere neanche snob, sennò “si fa il gioco delle destre”). Schlein scioglie le contraddizioni. Tutto diventa fluido. Solo chi sottovaluta l’importanza del pop non l’ha vista arrivare alle primarie. Provate a immaginare Bonacini che canta “ho visto lei che bacia lui che bacia lei” (ecco). 

 

Da quando il pop è l’unico linguaggio spendibile in politica, in un cumulo di segni dalla Nutella ai bestseller di Recalcati, la funzione di spin doctor e ghostwriter è trovare i riferimenti giusti, infarcire d’immagini e citazioni pop i discorsi dei politici. Perciò non vanno sottovalutati, non sono gossip. Rivelano strategie, obiettivi, target. Schlein, per esempio, è pop anche nei cortei, mentre imbraccia un megafono vintage, è perfetta per l’estate militante e per l’autunno caldo, per il Pride, il precariato e un “mondo senza le mafie”, sempre raggiante, la sfilata le è congeniale, porta in piazza un tocco in più. Il tocco del pop. Un pop non gramsciano, non popolaresco o fantasy, ma glamour e cosmopolita. Quindi non Tolkien, Saint Exupéry, Pino Insegno, ma film di Kim-Ki-Duk e Wong Kar-wai, documentari sull’Albania, musica dei “The National”, videogame a tema “pirata dei Caraibi” della Lucasfilm. E poi Sanremo come un nuovo Pantheon, una casamatta della sinistra nella Rai melonomane. Tutta una galassia di Elodie ed Emma, Annalisa e La Rappresentante di Lista, Mahmood-Blanco, il Fedez barricadero del primo maggio e Sethu, trapper crepuscolare con zazzera francescana e Ep dal titolo programmatico, “Cause perse”. Ma anche tanti altri che incontrano tutti, chi più chi meno, chi prima chi dopo, le battaglie della sinistra.

 

Con la ricerca di una nuova egemonia chiamata a cancellare il ricordo delle Leopolde con Baricco, Cucinelli, il frigo vintage e le poltrone Frau, la segreteria Schlein apre un nuovo capitolo della complessa, tormentata storia di una sinistra che voleva o doveva essere pop. Ma per cogliere meglio scarti e differenze tra le due operazioni, il pop di Renzi e quello di Schlein, così vicini, così lontani, bisogna prima riavvolgere il nastro.  

 

Ai tempi del Pds e poi della nascita e dell’affossamento dell’Ulivo c’erano già le scorribande immaginifiche di Veltroni. C’era D’Alema in visita a Mediaset, fotografato col Gabibbo come un missionario in Cambogia. C’era il fatidico risotto in grembiule da Vespa o Jovanotti invitato a Palazzo Chigi, con D’Alema premier, per discutere del debito dei paesi poveri. C’era Fassino che si scioglieva a “C’è posta per te” ritrovando Elsa, la tata di famiglia, anzi “la signora che stava in casa con noi”, come disse lui. C’era Giovanna Melandri che recapitava casse di libri ai concorrenti del primo “Grande Fratello”, classici naturalmente, spaventata in qualità di ministra dell’Istruzione da tutta quella vacuità (e gli autori del format preoccupatissimi, “così però i ragazzi si estraniano, non si relazionano più con gli altri”). Alla fine dei roaring nineties, il pop della sinistra era Prodi invitato a “Mortadella Bo”, festa dell’omonimo insaccato, col premier ulivista che affettava e cantava le lodi di questo “cibo proletario e raffinato”. Ma la mortadella non era pop. Non c’era Masterchef. Non eravamo ancora in piena gastrocrazia. La mortadella era mortadella, non un “percorso esperienziale e interattivo che coniuga arte, cultura e storia”, come spiegano oggi al “Museo della mortadella IGP”, inaugurato a Palazzo Pepoli, a Bologna. L’Ulivo, insomma, non era pop. Non ha mai voluto esserlo. Il pop era presidiato da Berlusconi e il primato non ammetteva confronti. Non ci si provava nemmeno. Niente sfavillamenti, musichette, luccichii. Inutile scimmiottare l’originale. L’unica strategia possibile parve allora un sano e robusto radicamento nella tradizione e nel folklore di un’Italia quasi preconsumistica.

 

Come ha scritto Filippo Ceccarelli in uno di quei tre o quattro libri fondamentali per capire come funziona questo paese (“Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua”), in quegli anni “Prodi certificava la ricerca di un consenso insieme popolare e rassicurante. Calciobalilla, partite di briscola, fisarmoniche in piazza, ballo lissio e bande di paese”.  Un popolare che si identificava con l’omonima canzone di Ivano Fossati, inno dell’Ulivo per la campagna elettorale del ‘96, adottato in tutta risposta ai nuovi sfolgoranti metodi comunicativi del Cav., col jingle di Forza Italia in loop al karaoke nei congressi, per esempio. Il fatto è che dalla fatidica irruzione di Berlusconi sulla scena politica, ogni leadership della sinistra avrebbe dovuto prima o poi fare i conti col pop, recuperando magari dentro una sola campagna elettorale una vita di pregiudizi, diffidenze, snobismi, reticenze, condannandosi a piacere a tutti senza sembrare scemi o ridicoli agli occhi della base più incazzata dell’elettorato. Mica facile. Il Pd nasceva appunto su queste premesse e sfide, fidando nel magistero del softpower veltroniano, film, libri, festival, forum, un loft “open space” al posto di Botteghe Oscure, e una nuova militanza omeopatica che accettava senza complessi tutte le sfide del cazzeggio, come nell’indimenticabile video-spot, “I Am Pd”, sulle note dei Village People, che però non furono né avvertiti, né pagati, e subito lo fecero rimuovere da YouTube (e qui metafore e presagi a perdita d’occhio, c’era davvero già tutto). 

 

Sono invece passati dieci anni esatti dal punto di svolta di questa scalata al pop, cioè dall’ospitata di Renzi nel serale di “Amici” di Maria De Filippi. E a distanza fa effetto che nessuno allora gli abbia dato del boomer, ma la parola del resto non circolava. Eppure con quel giubbetto di pelle, i jeans, l’arringa sul successo, il merito, la caparbietà e tutte quelle cose lì, Renzi, che pure si presentava come giovane tra i giovani, artefice di un nuovo patto generazionale tra il Pd e i pischelli di Maria De Filippi, sconfinava in pericolosa zona “ok boomer”. Un rottamatore già in crisi di mezza età che s’infila nella platea di “Amici”, col Porsche parcheggiato fuori gli studi televisivi.

 

Fu comunque una svolta. Un punto di rottura. La versione pop della Bolognina. Anche perché su Maria De Filippi gravavano ipoteche e anatemi, mica come oggi. C’era già stato Fassino a “C’è posta per te”, direte voi. Ma quella era la De Filippi della nostalgia, delle madeleine, del passato che ritorna, tutta roba già esplorata da Fazio e Baglioni, quindi sdoganata, come si dice in questi casi. E poi Fassino aveva l’aria di uno che passava lì per caso, che si concedeva dall’alto, l’esploratore di un continente ignoto. Renzi no. Renzi voleva sembrare come loro. Animato dal “desiderio di essere come tutti” (era anche l’anno dello Strega di Francesco Piccolo), Renzi andava lì a dire che “la purezza della sinistra” era finita, forse c’era stata una volta, chissà, ma ora non più, non ci credeva nessuno, e soprattutto faceva perdere le elezioni. Forse voleva solo prendersi un po’ di voto giovanile del sud, target e nocciolo duro delle audience defilippiche, ma la portata simbolica era ben altra. Renzi ad “Amici” rompeva la diga. Saviano e le sardine cooptati da Maria De Filippi, ma anche Zingaretti da Barbara D’Urso, sono tutti detriti di quell’ospitata-prototipo.

 

Dieci anni è anche grossomodo l’intervallo di tempo che serve a trasformare una creatura di Maria De Filippi in una potenziale icona pop della sinistra. Giusto il tempo di espiare la colpa e sciacquare i panni a Sanremo. Per esempio, quando Vecchioni vince Sanremo, nel 2011, battendo la favoritissima Emma, lei era ancora “quella di Maria De Filippi”. Il sorpasso sapeva di riscatto sui prodotti plastificati del berlusconismo e di quella start-up di disvalori che era “Amici”. Questa sinistra che vince al televoto, scriveva Gad Lerner, “risuona come un segnale che il vento sta cambiando”. Poi però Emma diventa la madrina della “Sea Watch”, canta a Eboli, invoca i “porti aperti” sul palco. La trasformazione è compiuta. E’ una dei nostri. Emma Marrone era nella squadra dei “bianchi”, quel 6 aprile 2013, quando Renzi si presentò ad “Amici” infagottato da Fonzie. C’era anche Edwyn Roberts, giovane cantautore, che scriverà poi la hit di Diodato citata da Schlein. Elodie arriva poco dopo, la scartano una prima volta nel 2009, viene presa nel 2015, dove si piazza seconda. Annalisa era entrata invece nella decima edizione. Renzi ad “Amici” creò malumori e imbarazzi. Dieci anni dopo mezzo pantheon canterino del nuovo Pd di Schlein viene da lì. È stata la mano di Maria. “Amici” come l’unica scuola che funziona in Italia, diceva Walter Siti, ma anche “scuola di formazione del Pd”, meglio di quella che Renzi voleva mettere su con Recalcati, intitolandola a Pasolini (vuoi mettere come suona meglio? “Scuola di partito Maria De Filippi”, e poi che il Kissinger del Pd sotto sotto sia lei lo sappiamo tutti). Non è la sinistra che è diventata pop, ma il pop che si è inghiottito la sinistra, e da mo’.

 

Il pop di Renzi, su cui tutto ha già detto il formidabile Claudio Giunta in un bel libretto di qualche anno fa (“Essere #matteorenzi), non serviva solo ad aggregare voci diverse ma a separare il vecchio dal nuovo (“difendere l’articolo 18 è come volere mettere il gettone nell’iPhone”, e vedevi subito Cofferati intrappolato in una cabina della Sip mentre Renzi spargeva tweet a raffica su due o tre “device”; Schlein invece nomina Sandro Ruotolo responsabile dell’informazione Pd, uno che potrebbe in effetti avere ancora dei vecchi gettoni in tasca). Ma se il vecchio repertorio era da buttare, il classico era da rilanciare. Renzi inanellava Dante e Twitter, la bellezza dell’iPhone e quella del Rinascimento, in una vertigine della sincronia tenuta insieme dalla forza e dalla fuffa dello storytelling, col passato che diventava pop e il pop che entrava nei musei. Schlein punta soprattutto sulle canzoni: cantautorato, dance, trap, forse perché il pop ora deve essere anche “woke”, più consapevole delle secolari ingiustizie sociali, aggiornato ai tempi, e la musica in questo senso è meno rischiosa, innocua, schiacciata com’è sul presente. Schlein, che è più cosmopolita di Renzi, si registra anche sull’aria che tira nei campus americani. Sa che il passato remoto e la cultura classica sono carichi d’insidie, trappole etiche, intoppi, errori e colpe che non abbiamo finito d’espiare. Aprirsi al Rinascimento o a Dante o a qualsiasi altra cosa del genere può significare scivolare dalle parti della cultura del dominio, del canone patriarcale, della white supremacy, dello sguardo maschile, coloniale, occidentale, insomma un bel casino. Meglio non rischiare. Meglio le musichette. Meglio l’estate militante e “Mon Amour”.

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