l'analisi
No, non siamo la Francia. Ecco perché non s'incendia anche l'Italia
Un paese in declino da decenni, in crisi demografica e con giovani senza prospettive. Ma qui, a parte la minore immigrazione, non è mai esistita l'idea di "assimilare" nessuno. Quel che vige, nelle periferie e non solo, è l'anarchismo e il familismo. Tra territori che si arrangiano, ricchezza in nero e un cinismo che impedisce rivoluzioni
Manco a dirlo c’è Conte che la spara grossa, “abbiamo un governo che in modo consapevole sta programmando un incendio sociale”. E tra salario minimo e città che bruciano davvero, tra “darwinismo sociale” e gendarmi che sparano davvero, diciassettenne vale diciassettenne, in una versione demagogica del taglione, tutto è brodo per cuocere l’idea che l’Italia non ha troppi motivi per non essere la Francia. Fortuna che non possiamo permetterci Mélenchon, lui nell’incendio spera davvero, tocca tenersi Conte. Ma la domanda è quella: perché qui no?
La stessa domanda di chi, con più intelligenza, ne teme le conseguenze lepeniste. Il manifesto, assai attento, ha intervistato la giornalista francese di origine algerina Louisa Yousfi, autrice di un saggio dal titolo “Restare barbari” (DeriveApprodi). Yousfi denuncia “la violenza delle politiche assimilazioniste” francesi, vede “i selvaggi all’assalto dell’Impero”. Ma non si sa bene se sperare o temerla, “l’alleanza tra le classi popolari bianche della sinistra e quelle delle banlieue”. Del resto la miccia arriva in città ricche come Bordeaux, e in Belgio, e addirittura nella iper controllata Svizzera. Perché non in Italia? Anche chi non cova nessuna speranza di rivolta si sorprende che un paese in declino da decenni, in crisi demografica, coi giovani senza affitto né reddito non esploda. Come mai “nei territori perduti della Repubblica” (italiana), dove sicuramente abitano generazioni perdute, l’incendio non s’appicca? Del resto non si accese la miccia dei deficienti in gilet arancione, dei forconi, persino dei camalli no vax. Si disse persino che, al culmine della crisi sociale, Beppe Grillo offrì una valvola di sfogo elettoralistica a una protesta che poteva finire peggio (o almeno, se lo disse da solo). Sta di fatto che la Francia è lontana, quanto a esplosioni di rabbia e violenza, e ancor più rivoluzioni.
Ci sono motivi storici e nazionali, si sa, senza tornare sempre all’indietro. E si sa che “in Italia le rivoluzioni finiscono all’ora di pranzo” (Montanelli), versione più becera e meno elaborata di “in Italia la rivoluzione non si può fare perché ci conosciamo tutti” (Missiroli o Longanesi). Ma procedendo per approssimazioni, va registrato per prima cosa che non abbiano il peso di una immigrazione post coloniale così importante e di cui si sia fallita l’assimilazione (vedremo con le nostre due prossime generazioni, ma in assoluto i numeri sono incomparabili). Ma soprattutto non abbiamo le banlieue, i territori perduti. Siamo un paese di poche città non ancora avviate a divenire megalopoli; di borghi ben distanziati ma anche ben collegati e passabilmente pasciuti; abbiamo periferie a volte sgangherate, soprattutto al sud, a volte in mano alla criminalità. Terre di casalesi e di Messina Denaro. Ma solitamente non così vaste, uniformi e povere; e non luoghi in cui sia proibito allo stato di entrare, come avviene a Saint-Denis o a Clichy; casomai qui è proprio lo stato, con le sue amministrazioni locali, a non avere nessuna voglia di andarci. E sono in maggioranza periferie non così povere, non così blindate. La caratteristica italiana è un territorio poroso fatto di piccoli centri che convergono su aree “medio-politane”. Non-luoghi sì, ma dove non è impossibile stare. E, la cosa principale, la distinzione tra opulenza e indigenza è (quasi) altrettanto labile, segue la linea arabescata del nero. I minorenni tiktoker delle banlieue danno l’assalto agli Apple Store e ai negozi delle Air Jordan; i ventenni youtuber di Casal Palocco affittano Lamborghini con cui producono tragedie solitarie, non fuochi collettivi. La frattura tra bisogni e meriti delle periferie italiane è diversa. E, con il dovuto distinguo, anche il vuoto (nichilismo, è la parola del momento) delle periferie esistenziali (cit) è diverso. E’ un vuoto che ha come rifugio la culla tiepida del familismo amorale. Missiroli (o Longanesi) meglio di Montanelli: non si fanno rivoluzioni se ci si conosce tutti. La tenuta di un modello sociale così anarchico e permeabile è il vero eccezionalismo italiano. Non che sia una meraviglia, certo che no.
Ha scritto sul Corriere Stefano Montefoschi che “mai come in questi giorni il modello universalista e assimilazionista francese sembra avere fallito”. Diventare francesi si scontra con un muro di gomma o di fuoco. Invece il particulare dello stato italiano è che non ha mai avuto alcun modello universalista e assimilazionista da offrire. Il crogiolo, se funziona, funziona per casualità sociale. Il modello sono l’anarchismo e il familismo, tarati su un quieto vivere che ha consentito ai figli dei più di potersi permettere le Air Jordan o la Lamborghini in affitto. Il cinismo particulare tiene a bada persino il fallimento sociale italiano.
L'editoriale dell'elefantino