L'editoriale del direttore
Ecco l'agenda Draghi-Meloni: dieci punti e dieci convergenze
Un anno fa cadeva Draghi. Un anno dopo il partito più in continuità con il programma di quel governo è l’unico che stava all’opposizione. Storia di un’eredità sorprendente spiegata in dieci esempi (delega fiscale compresa)
Il 14 luglio, in Francia, lo sapete, viene ricordato per essere il giorno in cui fu presa la Bastiglia, nel 1789, nel momento più importante della Rivoluzione francese (il 14 luglio in Francia è anche festa nazionale, ma si celebra la Festa della federazione, giorno dell’unità nazionale, non la Bastiglia). Il 14 luglio, in Italia, potrebbe essere invece ricordato, almeno quest’anno, per una ragione meno solenne ma comunque importante per la storia del nostro paese. Non per l’assalto riuscito alla Bastiglia, ma per l’assalto riuscito a Mario Draghi. Un anno fa, lo ricorderete, l’ex presidente del Consiglio si ritrovò per la prima volta con una maggioranza monca, spaccata. Ed esattamente un anno fa, in occasione del voto di fiducia sul dl “Aiuti”, 61 senatori del M5s scelsero di non partecipare al voto. Draghi si dimise nel tardo pomeriggio, Mattarella rifiutò le dimissioni, la crisi venne parlamentarizzata e il 21 luglio, dopo la scelta fatta anche dal centrodestra di non rinnovare la fiducia a Draghi, l’ex governatore della Bce si fece definitivamente da parte.
Un anno dopo, ragionare sull’eredità di Draghi può essere un esercizio utile per provare a mettere a fuoco un interessante e rassicurante paradosso italiano. E il paradosso è presto detto. I partiti che tra il 2021 e il 2022 decisero di sostenere la così detta agenda Draghi, hanno scelto a poco a poco di allontanarsi da quell’agenda. L’unico partito che tra il 2021 e il 2022 invece decise di non far parte della maggioranza Draghi è quello che oggi ha scelto di portare avanti con maggior convinzione l’agenda politica, economica e strategica delineata dall’ex governatore della Bce. E ci sono almeno dieci storie che si possono provare a cucire insieme per fare chiarezza su questo punto. Esiste un’agenda Draghi? Forse. Esiste un’agenda Draghi-Meloni? Sicuro. La prima storia è quella ovvia: nessun partito come quello di Giorgia Meloni, in questi mesi, ha mostrato di avere a cuore, come ha ribadito ieri la premier nei suoi colloqui al vertice della Nato a Vilnius, la difesa dell’Ucraina. E il ragionamento vale sia se si pensa agli alleati che ha Meloni al governo (Salvini, in 500 giorni di conflitto, non è stato ancora in grado di dire una sola volta che le sanzioni contro la Russia servono e in 500 giorni di conflitto non ha ancora trovato l’occasione giusta per rompere l’accordo di cooperazione rafforzata che ancora lega il suo partito con quello di Putin). E vale anche se si pensa all’opposizione (il M5s non vuole più inviare armi a Kyiv, il Pd in Europa sull’Ucraina vota ormai spesso in dissenso dalla linea degli stessi socialisti europei). Sull’Ucraina, dunque, la sovrapposizione delle agende è chiara e d’altronde era chiara anche durante la stagione del governo Draghi quando Meloni intelligentemente scelse di costruire il suo profilo di responsabilità proprio su questo dossier. Ma sul resto? Procediamo a colpi di domande.
Si può dire (punto numero due) che l’approccio seguìto da Meloni sulla cura dei conti pubblici sia diverso rispetto a quello seguìto da Draghi? No, è ovvio. Non è un caso che al ministero dell’Economia vi sia il più draghiano tra i politici di destra in circolazione (Giancarlo Giorgetti). E non è un caso che la premier, a proposito di conti pubblici, abbia scelto, pur potendolo cambiare, di confermare alla guida della Ragioneria dello stato Biagio Mazzotta (e anche sull’attenzione al debito nulla di quello che sta facendo Meloni non lo avrebbe fatto anche Draghi). E ancora: si può dire (punto numero tre) che l’approccio seguìto da Meloni nell’ambito del percorso adottato dall’Italia sul fronte dell’indipendenza energetica dalla Russia sia diverso da quello seguìto da Draghi? No, è ovvio. Non è un caso che il governo Meloni, pur potendolo cambiare, ha scelto di confermare come amministratore delegato di Eni lo stesso ad che ha lavorato bene con Draghi, ovvero Claudio Descalzi. E non è un caso che la premier, come capo di una delle società partecipate più importanti dello stato, Leonardo, abbia scelto proprio l’ex ministro per la Transizione ecologica del governo Draghi: Roberto Cingolani (il titolo di Leonardo, tra l’altro, dopo alcuni mesi di incertezza, successivi alla nomina di Cingolani, ha recuperato terreno ed è tornato ai livelli di aprile, quando è avvenuto il cambio della guardia nella società partecipata dallo stato). E ancora, punto numero quattro: si può dire che l’approccio seguìto da Meloni sul fronte delle politiche energetiche, in Europa, sia così diverso da quello seguito dal governo Draghi? No, è ovvio. Il governo Draghi, nel 2022, tanto per dirne una, sottoscrisse un documento per far slittare il divieto di vendita delle macchine inquinanti, cosa che ha fatto anche il governo Meloni. E, tanto per dirne un’altra, rispetto al tema dello sviluppo del nucleare di nuova generazione la linea del governo Draghi, sì facciamolo, e quella del governo Meloni, facciamolo, è la stessa ed è una linea che si è ormai affermata anche a livello europeo. E ancora, punto numero cinque: si può dire che sulle politiche migratorie l’approccio scelto dal governo Meloni sia pressoché simile a quello scelto dal governo Draghi? Incredibilmente sì. L’attenzione nei confronti della Tunisia è la stessa. La volontà di imporre in Europa un principio di solidarietà pure. La propensione ad allargare le maglie del decreto flussi è persino più forte in questo governo che in quello precedente partecipato anche dal Pd. E persino il Patto sui migrazione e asilo, firmato due settimane fa dal governo Meloni, è lo stesso che il governo Draghi aveva promosso tra il 2021 e il 2022, con la reazione durissima, su quell’accordo, dell’opposizione guidata allora da Meloni. E ancora, punto numero sei: si può dire che vi sia una continuità vera, netta, tra la politica economica del governo Meloni e quella del governo Draghi? A parole, molte differenze. Nei fatti, diverse somiglianze. Nell’ultimo discorso tenuto al Senato, il 22 luglio del 2022, Draghi indicò due problematiche da risolvere con urgenza in Italia. La prima: il Superbonus, da rivedere. La seconda: il Reddito di cittadinanza, da superare. Draghi lo ha detto, Meloni lo ha fatto. E in più, con piglio anche qui draghiano, la premier – punto numero sette – ha scelto di assecondare la linea del suo predecessore anche su altri fronti: non intervenire sulle accise sulla benzina (fatto), ampliare ancora di più l’uso del Pos (non ci crederete, ma il governo Meloni, nel giro di pochi mesi, è passato dal dire meno Pos a far ingoiare il Pos anche alle tabaccherie), vendere Ita (Draghi voleva venderla a Lufthansa, il suo Mef provò a venderla ad Air France, Meloni è riuscita a cederla proprio a Lufthansa). Se tutto questo poi non vi bastasse, punto numero otto, pensate anche alla delega fiscale su cui sta lavorando in questi giorni il Parlamento, che tranne piccole sfumature è la stessa identica delega presentata dal governo Draghi alla fine del 2021 (chiedere per credere a Luigi Marattin, parlamentare di Italia viva, che da presidente della commissione Finanze, presentò al governo Draghi una proposta di delega fiscale che rispecchia incredibilmente quella di cui sta discutendo in queste ore la Camera).
Se tutto questo non dovesse bastarvi, ancora, arriviamo al punto numero nove. E all’interno del punto numero nove non potete non pensare alle nomine molto importanti fatte da Meloni in questi mesi. Il prossimo governatore di Bankitalia, Fabio Panetta, è un pupillo di Draghi. La capa dell’agenzia del Demanio, Alessandra Dal Verme, è stata confermata da Meloni dopo essere stata nominata da Draghi. Il direttore dell’Agenzia delle entrate, Ernesto Ruffini, è stato anch’egli confermato, dopo aver lavorato con Draghi. Il commissario per l’alluvione in Emilia-Romagna è lo stesso scelto da Draghi per gestire l’emergenza pandemica. Il nome individuato dal governo per i vertici della Bei è Daniele Franco, ex ministro dell’Economia del governo Draghi. E anche sui vertici di Cdp (Scannapieco) e dei servizi (Belloni) Meloni ha scelto di non esercitare quelle pressioni invece esercitate in Rai per promuovere anzitempo un ricambio della governance (Fuortes). Se tutto questo però non dovesse bastarvi pensate se vi sia un solo punto nella politica estera di Meloni che diverga dalla politica estera del governo Draghi (in Europa, incredibile a dirsi, il governo Meloni ha fatto quello che avrebbe voluto fare il governo Draghi, arrivando a promuovere con altri otto paesi un documento per proporre il voto a maggioranza qualificata – e non più all’unanimità – nella Politica estera e di sicurezza comune europea). Anche qui: la risposta è no. Per carità. E’ ovvio. Le differenze tra Draghi e Meloni ci sono, neanche a dirlo, e basterebbe osservare i ritardi accumulati dal governo Meloni sul Pnrr, per capire l’abisso, su alcuni temi, che esiste tra la vecchia stagione e quella precedente. Ma il confronto tra Draghi e Meloni, se letto in positivo, è lì a testimoniarci un carattere incoraggiante della leadership meloniana: conoscere il senso del limite, non avere paura delle incoerenze ed essere consapevole che sulle bandierine si può litigare ma sui doveri no. Un anno fa, finiva la stagione draghiana. Ma la rivoluzione, per fortuna, ancora non c’è e chissà se ci sarà. Buon 14 luglio.