L'analisi
I tabù dell'Europa verde, lo scontro sul Green Deal
Le europee 2024 si giocheranno sull’ambiente. La sinistra sta impoverendo i suoi elettori e ha fornito alla destra occasioni per scatenare l’attacco sui costi della transizione e sulla sovranità europea invadente ed eccessiva. Come uscirne
Come era ampiamente prevedibile il green deal è diventato uno dei punti di scontro più accesi delle politiche europee. Fino a portare i Popolari fuori dalla maggioranza Ursula, salvatasi per un pelo nel voto di pochi giorni fa sul programma di rinaturalizzazione. Ma con una ferita difficilmente rimarginabile. Alla destra sono state fornite discrete occasioni per scatenare l’attacco con almeno due argomenti. I costi che la transizione europea implica per famiglie e imprese; la natura centralista e ultra prescrittiva di molte di queste misure che appoggiano su una sovranità europea invadente ed eccessiva. Proposte ovviamente nessuna. Sull’altro lato un populismo diverso, ma altrettanto inconcludente, ideologico, che predica la catastrofe prossima ventura e quindi la necessità di non arretrare di un millimetro. Anzi accelerare accelerare accelerare. Posizionamento che non è solo dei gruppi ambientalisti più estremi, compresi gli imbrattatori di monumenti, ma anche di vari intellettuali e politici variamente orientati a sinistra. Il clima politico si surriscalda e il merito dei problemi rischia di essere completamente trascurato. Con buona pace delle soluzioni possibili. Qualcuno, per esempio la posizione ragionevole contenuta nel recente libro di Francesco Rutellli, “Il secolo verde”, o le proposte avanzate da Roberto Cingolani con altri autori (Agnoli, Zollino, Dialuce, Gracceva, Macchi) nel libro che riassume anche la sua esperienza di governo (“Riscrivere il futuro”) cerca di proporre un approccio costruttivo, ma il rischio è quello di essere stritolati fra gli opposti populismi. Ma per inquadrare l’oggetto del contendere conviene fare un passo indietro. Keynes disse una volta che quando gli economisti azzardano previsioni la scienza economica comincia ad assomigliare all’astrologia. Vale a dire che ha la stessa affidabilità degli oroscopi.
Per questo motivo anziché azzardare previsioni sul futuro forse vale la pena di guardare ai consuntivi. Tre fatti. Da quando all’inizio degli anni ‘90 è iniziata la discussione sulla necessità di ridurre i gas serra essi sono continuati a crescere anno su anno. Non solo: la loro velocità di crescita è aumentata. Ogni anno un po’ di più, con l’eccezione del periodo della crisi finanziaria (2008) e del biennio del Covid. Dove abbiamo sperimentato la decrescita infelice abbastanza per farcela bastare. Ma già nel 2022 si è raggiunto il picco storico di nuove emissioni. Secondo: i consumi di carbone in crescita nel 2022 hanno superato per la prima volta 8 miliardi di tonnellate consumate. Terzo: i consumi di petrolio sfonderanno questo anno molto probabilmente il tetto dei 100 milioni di barili al giorno (!). Tutto il contrario, un fallimento mi sembra, di una narrazione che sembrerebbe dare per vincente l’inarrestabile crescita delle fonti rinnovabili. Che pure avviene, ma dentro confini definiti. Per due ragioni. Fra l’80 e il 90% di tutta l’energia (energia primaria) consumata nel mondo è soddisfatto dai combustibili fossili. Lentamente, molto lentamente si riduce di qualche punto la loro percentuale sul totale. Ma un totale che è sempre più grande, perché il consumo di energia continua a crescere. Quindi anche una percentuale inferiore significa quantità più grandi di petrolio, carbone, gas. Le rinnovabili elettriche insistono solo sulla quota di elettricità che è mediamente del 20% del totale dei consumi energetici. E in parte maggioritaria prodotta anche essa con fossili, carbone soprattutto e gas. Ma vi è una seconda ragione ancora più sostanziale per capire perché il mondo va come va e non come vorremmo e ci piacerebbe andasse. E’ l’immenso fabbisogno di energia di cui ancora necessita buona parte del mondo, quello in cui vivranno fra pochi anni i 4/5 dell’umanità. Se gli Stati Uniti hanno un consumo procapite di 75.000 kWh (usando il kWh come unità di energia onnicomprensiva) l’Africa si attesta a 4.000. Buona parte dell’Asia e dell’America Latina stanno intorno ai 10.000. Vogliono crescere, crescono, e per crescere ancora hanno bisogno di energia. E il modo più facile ed economico per farlo è il ricorso alle fonti fossili, che assicurano densità energetica, continuità, disponibilità e costi contenuti. Per rendere più chiaro il ragionamento osserviamo cosa è accaduto in Cina che spicca in Asia per l’ incredibile sviluppo avuto negli ultimi decenni. La Cina dal 2000 al 2020 ha quadruplicato i suoi consumi energetici e con questo ha conquistato il primato di primo emettitore mondiale. Ma ha strappato alla povertà centinaia di milioni di persone. L’ India e il resto dell’Asia vorrebbero replicare questa storia di successo. Con quali conseguenze sulle emissioni globali è facile immaginare. Ma chi glielo può vietare? Sono sempre di più i leader di questa parte del mondo che accusano l’Europa di neocolonialismo ambientale”. Ci volete condannare alla povertà eterna, impedendoci di usare petrolio e carbone, mentre voi avete inquinato il mondo con le vostre emissioni”. Strano che proprio la sinistra europea, una volta internazionalista e pro sviluppo di questi paesi, non si renda per niente conto di questa contraddizione. Stranamente i combustibili fossili, la stragrande maggioranza dell’energia consumata nel mondo ed in crescita continua, non compaiono mai nelle discussioni se non per la richiesta di vietarne l’uso. E’ quindi un bene che la prossima COP si tenga a Dubai. Forse sarà l’occasione per fare i conti con serietà anche con le fonti fossili.
Torniamo quindi in Europa e agli opposti populismi, demagogia contro ideologia, che si confrontano. L’Europa con la sua transizione verde vorrebbe salvare il mondo e salvare se stessa. Il mondo come abbiamo visto viaggia su altre lunghezze d’onda e non è certo l’Europa con il suo 8/9% di emissioni totali che può fare la differenza. Ma i sostenitori della strada scelta usano un altro argomento. La transizione può costruire in Europa un altro modello di sviluppo capace di assicurare crescita, innovazione, occupazione. Un’occasione da non perdere. C’è del vero, a parte l’uso infelice e vagamente iettatorio dell’espressione “modello di sviluppo ”, ma solo se queste indicazioni vengono implementate con un po’ di saggezza e la necessaria gradualità. Visto che non saremo noi a salvare il mondo cerchiamo di dare il nostro contributo anche guardando ai nostri interessi. Intanto tutte le proposte avanzate dalla Ue latitano di studi approfonditi sulle conseguenze economiche. Incredibile ma vero. I vari dossier quasi mai presentano analisi esaurienti. Anzi spesso non ci sono proprio. E quando ci sono, sono redatte da società compiacenti che quasi mai ci azzeccano visto che dicono quel che la Commissione vuol sentirsi dire. Un po’ come in Italia con gli studi sui benefici del super bonus 110 commissionati dai costruttori e sbugiardati dal Mef. Ci sono certamente campi promettenti, sviluppo delle rinnovabili per esempio, recupero almeno parziale del gap su batterie e auto elettriche, efficientamento degli edifici. Ma tempi e modi non sono secondari. Pretendere per guardare all’Italia che si efficientino milioni di edifici in pochi anni o che si stravolgano le buone pratiche di riciclaggio ottenute in Italia (siamo i primi riciclatori d’Europa) per modificare con scarsi benefici tutte le norme sugli imballaggi. O attaccare frontalmente l’agricoltura europea imponendo standard impossibili nell’ uso di fitofarmaci e pesticidi. Puro autolesionismo economico e politico. Un discorso a parte meriterebbe il futuro dell’industria automobilistica. Per il momento limitiamoci ad osservare che il mercato delle batterie è saldamente in mano cinesi e che aumentano le importazioni di auto elettriche dalla Cina. Secondo i dati di TERNA per raggiungere gli obbiettivi stabiliti dalla UE al 2030 l’Italia dovrebbe immatricolare 8 milioni di auto “full electric” più un paio di milioni plug-in entro il 2030. L’anno scorso si sono immatricolata in Italia 1.300.000 automobili in totale con meno di 50.000 full electric. Ma a Bruxelles qualcuno sa fare i conti? Che fare quindi? Forse la Commissione dovrebbe rallentare anziché accelerare a testa bassa. Come richiesto per esempio dal Presidente francese Macron, spaventato dall’idea di dovere avere a che fare dopo i gilet gialli anche con gli agricoltori francesi e i proprietari di casa. Come dire un’autostrada aperta a destra. Rallentare per mettersi in sintonia con il mondo.
La transizione è una cosa seria. Comunque la si pensi, non c’è bisogno di evocare la fine del mondo ogni due minuti, un mondo più pulito serve a tutti e riuscire ad avere una crescita economica equilibrata è un buon obiettivo. Miliardi e miliardi di dollari e di euro vengono investiti ogni anno nella ricerca di quei salti tecnologici che hanno cambiato e cambieranno il mondo. Sarà una corsa lunga e durerà probabilmente non qualche decennio ma molto di più se vorrà non limitarsi alla Ztl del mondo, ma essere globale. Una condizione necessaria. Autopunirci con assurde prescrizioni di ogni genere e imponendoci obbiettivi irrealizzabili serve solo a screditare questo immenso sforzo. Usando la ragione e un po’ di ottimismo salviamo la transizione dagli opposti populismi. Dalla demagogia e dall’ideologia.