codice espressivo
Il fumetto divenuto arte di governo
Meloni come Minnie, Santanchè come Eva Kant, il presidente del Senato Dylan Dog, il ministro della Difesa manga. Come fantasie e nuvolette sono diventate espressione dell’attualità politica
Una presidenta minuta che si lamenta dei tacchi in conferenza stampa, perché indolenziscono i piedi, e poi entra e esce fulminea da una photo-op con i cosiddetti grandi della Terra, è un fumetto Disney. Minnie. Una ministra del Turismo che si difende in Parlamento chiamando in causa perentoriamente chi ha prenotato un lettino nel suo stabilimento balneare è un fumetto di Angela e Luciana Giussani. Eva Kant, maestra del mascheramento. Un presidente del Senato che “interroga” suo figlio su una seria circostanza penale notturna è un fumetto horror, non si dica un manga, ma almeno un Dylan Dog indagatore dell’incubo. Un ministro della Difesa gigantesco che mette la sua mole e sapienza democristiana al servizio del fascismo liberale, mentre gli scoppiettano intorno le armi e sfavillano le parate, è un fumetto. Un Titano dark fantasy scritto da Hajime Isayama. Anche chi non conosca i codici espressivi del fumetto sa che il racconto illustrato con le sue nuvolette di parole perfino troppo semplici, tipo quelle di un Delmastro Delle Vedove o di un Donzelli, condòmini fumettistici parecchio anche loro, non vogliono saperne di essere considerati una letteratura minore: i giornaletti o albi, le historietas o comic book, sono per molti parte decisiva dell’universo culturale del Novecento, e prima e oltre il limite del secolo hanno una lunga storia, sono un trionfo modernista e contemporaneista della semiologia. Non c’è dunque banale irrisione delle istituzioni nella considerazione fumettistica della nostra attualità politica.
Sta di fatto che l’atmosfera del nuovo regime frutto della benedetta alternanza, e deciso dagli elettori secondo le regole della legge elettorale, ha confuso avversari e sostenitori allo stesso titolo, e procede come un’infilata di cartigli con disegni similpop uno più sorprendente dell’altro. C’è anche Beatrice Venezi, soprannominata bacchetta nera da Roberto D’Agostino e qui incoraggiata a eseguire Bella ciao dal grande Makkox ventriloquo di Meloni, che dirige a Lucca il pucciniano Inno a Roma (“Sole che sorgi / libero eee giocooondo”), con un valzer d’intorno di amministratori e sovrintendenti riluttanti ma presenti, oppure polemicamente assenti, e tutti a ricordare il giudizio depressivo del Maestro sulla sua propria musica innologica: “Una porcheria”, diceva, che però piacque a Benito Mussolini e a Giorgio Almirante. (segue a pagina due)
Il fumetto italiano ha ora il suo pentagramma. Nel quale va compresa, ça va sans dire, La Bohème comunista, eseguita ieri da quelle parti e ambientata nel Maggio francese 1968, vedremo con quante adulazioni o strepito e proteste melomani e melonomani.
Ce la caviamo perché non ci siamo fatti fregare, ancora una volta, dal concetto di classe dirigente e dalle sue dolenti costrizioni stilistiche. Dopo i fasti gentili di Paperon de’ Paperoni, che hanno messo fine alla tragedia dei partiti anni Settanta, dilatandola e diluendola, è la volta di Minnie e altre fantasie e nuvolette. Che tutto questo avvenga in una successione ordinata, equilibrata e democratica di vignette lineari e tranquillamente leggibili nella compassata Europa mercantile, con il pasto solitario di Mario Draghi a Fiumicino (nuvoletta) e le sue conferenze a Cambridge che fanno testo e scuola (o squola) al mondo governativo delle Santanchè, dei La Russa, dei Delmastro Delle Vedove e delle Beatrice Venezi, dalle deleghe fiscali gradite al riformismo di centro al trascinante mito del debito buono, invenzione geniale di un uomo geniale, ecco poi la vera sorpresa. Non è la politica che è diventata un fumetto, è il codice espressivo e significante del fumetto che è diventato arte di governo dello stato.