politica e giustizia
La sfera incongrua del concorso esterno e del deep state mafioso
Per alcuni settori della magistratura e degli apparati, per il concerto mediatico-giudiziario, la realtà non può essere quella che si vede. E serve un reato ombra per rendere coerente la trama infinita di teorie del complotto
Sul fatto che il concorso esterno in associazione mafiosa sia incongruo e illogico, e che basta e avanza il favoreggiamento relativo a un reato materiale per incastrare con certezza giuridica il colluso con la mafia, evitando arbitrarietà e interpretazione normativa o giurisprudenziale, sono in realtà d’accordo un po’ tutti, da Nordio a Spadaro che sostengono tesi opposte eppure non negano, l’uno l’efficacia repressiva di interventi contro le coperture istituzionali dei criminali in materia di reati associativi, l’altro la prevalenza, nel reato che non è un reato, dell’interpretazione sulla norma definita e precisa.
La divisione in merito è politica, non solo di opportunità, come dice il professor Fiandaca. C’è una versione da leggenda nera della storia della mafia, della collusione con la mafia e del contrasto alla mafia, che punta sul ruolo dei colletti bianchi, cioè lo stato, gli amministratori, gli imprenditori, i funzionari, i deputati, i senatori che fiancheggiano dall’esterno gli scopi dell’organizzazione criminale.
Ma qui si entra in un’altra sfera illogica e incongrua, perché la mafia da un certo punto in poi, dopo i decenni del quieto vivere e del compromesso familista amorale, è stata combattuta dallo stato e in larga misura colpita e indebolita, se non sradicata e distrutta, proprio dallo stato italiano, e non solo da magistrati accaniti coraggiosi e spesso silenziosi, silenziosamente operosi, non solo da investigatori e poliziotti e carabinieri alle dipendenze dei pm e della direzione antimafia, anche dalle istituzioni, dagli uomini e dalle donne dei partiti, dal legislatore, dall’esecutivo.
La mafia è criminalità più politica, ma non è il deep state. Con il processo sulla trattativa e altre folleggianti astruserie si è cercato di dimostrare che coloro i quali avevano messo le manette a Riina e Provenzano, tanto per fare un esempio che si capisca, erano gli stessi che tramavano per indurre lo stato a cedere, a venire a patti immondi, disposti a proteggere il crimine organizzato in una sfera di sostanziale omertà e collusione. Il tutto è alla fine scoppiato come una bolla di sapone. Ora il concorso esterno resta lo strumento simbolico principale per l’uso politico della campagna contro la criminalità mafiosa.
Per alcuni settori della magistratura e degli apparati, per il concerto mediatico-giudiziario, la realtà non può essere quella che si vede. Falcone non lavorava al ministero della Giustizia, alle dipendenze di un governo Andreotti, quando fu martirizzato. Gli avevano sì dato del carrierista e dell’opportunista, perché non salvaguardava i colletti bianchi ma non credeva nel famoso terzo livello del deep state e non accettava la calunnia, però a tutto c’è un limite. Il maxiprocesso, che un cassazionista come Carnevale considerava uno sgorbio giuridico, fu organizzato, finanziato, sorretto con ogni mezzo, ai limiti della legalità e del diritto, dai politici della Repubblica e dei partiti, politici di governo spesso poi coinvolti in indagini e processi per mafia. Anche questo dato è inaccettabile. Serve un reato ombra, sovrano nel regno dell’incongruità, per rendere coerente la trama infinita di teorie del complotto su cui si basa non già l’antimafia ma lo spregiudicato abuso strumentale dell’idea trainante di uno stato criminale che non si vede.