l'editoriale del direttore
Il patto Biden-Meloni è un segnale contro l'estremismo
Kyiv, Tunisi, Pechino. Come la politica estera è diventata per Meloni un passepartout di responsabilità
Era il punto debole del centrodestra. Era il suo lato fragile, la sua spina nel fianco, il suo nervo scoperto. E ora, incredibilmente, è l’esatto opposto. E’ il punto forte. Il tratto più rassicurante. Il passepartout perfetto, o quasi, per aprire le porte della responsabilità e far cadere i muri della diffidenza. Ieri, a modo suo, l’incontro tra Giorgia Meloni e Joe Biden, alla Casa Bianca, lo ha dimostrato con forza. Lo ha dimostrato con le parole, con le dichiarazioni, con i comunicati congiunti, con gli sguardi e anche con la postura. Nove mesi dopo il suo primo giorno al governo, nonostante i pasticci interni, i peccati dei ministri, le scivolate in Parlamento, gli inciampi sul Pnrr e gli estremismi latenti, la politica estera è ciò che rende Giorgia Meloni un premier forte, persino trasversale, ed è la politica estera che ha reso possibile ieri quello che fino a qualche mese fa sembrava impossibile. A ottobre, durante una raccolta fondi per il Partito democratico americano a Los Angeles, Biden si disse molto preoccupato per il risultato elettorale italiano. “Visto cosa è successo alle elezioni in Italia? Visto che sta succedendo nel mondo? Il motivo per cui mi preoccupo è che non possiamo essere ottimisti”, disse. Pochi mesi dopo, la situazione si è ribaltata e difficilmente tra i paesi del G7 ve n’è uno che condivide gli obiettivi degli Stati Uniti con più forza dell’Italia. E’ un’esagerazione?
Provate a ripercorrere l’elenco degli argomenti affrontati ieri da Biden e Meloni e provate ad aggiungere anche quelli rimasti nel cassetto. L’Ucraina, naturalmente, con il rivendicato coordinamento eccellente dell’Italia con gli Stati Uniti. La Cina, naturalmente, con le preoccupazioni condivise dall’Italia rispetto alla necessità di avere un coordinamento più stretto tra Unione europea e Stati Uniti (e avere un’Italia più vicina alla Ue sulla Cina significa avere un’Italia più lontana dalla Via della Seta) per contrastare i così detti fattori destabilizzanti della politica cinese, sviluppare un’azione più efficace nei confronti di Pechino e lavorare per il mantenimento dello status quo nei mari cinesi e nello Stretto di Taiwan. Sui Balcani, ancora, dove l’Italia, agli occhi degli Stati Uniti, ha svolto in questi mesi un ruolo importante, essendo andata a portare il suo sostegno in tutte le realtà dove i russi potrebbero muoversi come mine vaganti (dalla Serbia al Kosovo). E infine, ed è stato questo uno dei piatti forti del menu di ieri alla Casa Bianca, la Tunisia, la Libia, il Niger, il Mali, il Corno d’Africa e tutte le aree africane dove la destabilizzazione potrebbe portare a un maggiore aumento dell’influenza di Russia e Cina.
L’incontro tra Biden e Meloni – un incontro non scontato, persino sorprendente, che testimonia quanto il presidente americano consideri Meloni una creatura politica diversa dal modello Bolsonaro e dal modello Orbán, due capi di governo, di ieri e di oggi, a cui Biden non a caso ha sempre negato le cerimonie concesse ieri a Meloni – non è stato certo risolutivo sul fronte tunisino (la diffidenza mostrata in questi mesi dal congresso degli Stati Uniti nei confronti del presidente tunisino Saied rende difficile per Biden l’opera che Meloni gli ha chiesto, ovvero sbloccare i finanziamenti dell’Fmi alla Tunisia, a cui sono subordinati i 900 milioni di euro a titolo di assistenza macro-finanziaria che l’Unione europea è pronta a concedere alla Tunisia). Ma è stato un incontro che ha permesso di ribadire, anche su questo fronte, una realtà non scontata: trasformare l’Africa, dalla Tunisia alla Libia, nel terreno perfetto su cui far maturare il coordinamento eccellente che vi è in questo momento tra Stati Uniti e Italia.
Per governare l’immigrazione, chiudere i porti non serve, evocare blocchi navali neppure, alzare i muri non ne parliamo. Ciò che occorre, per capirci, è avere la certezza che sulla Libia e sulla Tunisia gli Stati Uniti facciano quello che per molti anni la destra sovranista ha chiesto di non fare, quando invitava l’America a rispettare l’autodeterminazione dei popoli disimpegnandosi dal mondo ed evitando di andare ad esportare i suoi valori in giro per il pianeta. In sintesi: essere presenti, intervenire per governare i conflitti e aiutare l’Italia a fare di tutto e di più affinché i confini del Mediterraneo non siano trasformati dalla Russia e dalla Cina in terreni fertili per esportare instabilità. La politica estera, grazie alle contraddizioni, alle titubanze, ai fantasmi del passato e agli scheletri nell’armadio, doveva essere il punto debole dell’Italia nel mondo. Ieri, osservando l’incontro tra Biden e Meloni, è risultato chiaro che l’immersione dell’Italia a trazione sovranista in un mix fatto di atlantismo, europeismo, anti putinismo e riequilibrio dei rapporti con la Cina ha permesso alla presidente del Consiglio di portare avanti un’operazione solida, sorprendente e destinata forse ad avere un futuro: trasformare la politica estera non solo nel fiore all’occhiello dell’Italia ma anche in un argine trasversale contro gli estremismi di destra e di sinistra. Per aprire le porte della responsabilità, ove possibile, e provare a far cadere i muri della diffidenza. Si vedrà in futuro dove si riuscirà ad arrivare. Ma ieri alla Casa Bianca, almeno su questo punto, per Meloni la missione è stata compiuta.