Le molte incognite del Pnrr aumentano l'affanno di Meloni sui conti pubblici
Il Servizio studi del Parlamento sottolinea che le coperture per le modifiche al Recovery sono incerte: ballano 16 miliardi. Al Mef attendono il via libera da Bruxelles per stimare l'impatto del nuovo Piano e del RePower: ma, complici i ritardi di Fitto, le risposte della Commissione non arriveranno prima di novembre. E la Nadef andrà fatta prima. Per il governo dei sovranisti si preannuncia un'altra legge di Bilancio obbligata
L’uno e l’altro fanno sfoggio di realismo. L’uno, Raffaele Fitto, uscendo dall’Aula di Montecitorio spiega che “sì, lo sapevamo già che sarà tutto un gioco d’incastri”. L’altro, Giancarlo Giorgetti, a chi gli chiedeva se la flessione del pil italiano nel secondo trimestre lo allarmasse, spiegava che “non mi ero mai illuso” che sarebbe stata una passeggiata. Si riferisce, il ministro dell’Economia, alla legge di Bilancio di dicembre, e che inevitabilmente da quel “gioco d’incastri” che sarà la modifica del Pnrr, verrà in una certa misura condizionata. Perché ballano 16 miliardi di opere da modificare, da riallocare, e altri 19 del RePowerEu da valutare nel loro impatto, e su tutto grava l’incognita di una trattativa con Bruxelles dagli esiti non scontati. E sarà pure che loro due, Fitto e Giorgetti, hanno già deposto qualsiasi velleità contabile. Ma intorno a loro s’agitano le ambizioni e i desideri dei rispettivi leader: e pure quelli, per chi dovrà redarre la Nadef, saranno un problema.
Perché sarà pur vero che Giorgia Meloni ha fatto dell’affidabilità verso i mercati una componente della sua narrazione, e però nell’accettare come un esercito di cautela obbligato quella legge di Bilancio di fatto ereditata da Mario Draghi, l’anno passato, sperava forse di potersi in qualche modo riscattare in questo 2023, che del resto è preludio alla sfida elettorale delle europee. Quella a cui, senza alcuna remora, guarda pure Matteo Salvini, che infatti ha già iniziato a sbracciarsi: e giù con la pace fiscale, e la flat tax, e la riforma delle pensioni.
Ecco dunque che se un timore c’è, da parte di Giorgetti, sta proprio nel pressing che riceverà al rientro dalle vacanze agostane, quando bisognerà stilare la Nadef. Ripartendo da un dato, quello fissato nel Documento di economia e finanza di aprile, che prevedeva uno spazio di manovra di appena 4 miliardi, cioè quelli che, da sola, dovrebbe prendersi la delega fiscale, e la metà di quel che dovrebbe costare (tra gli 8 e i 9 miliardi) la riconferma del taglio del cuneo semestrale che Meloni presentò il primo maggio scorso, e con un certo sprezzo per il senso della misura, come “il più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni”. E poi ci sono le pensioni da ripensare, con le misure temporanee (Quota 103, Ape social e Opzione donna) in scadenza a dicembre. Il tutto, con un obiettivo di riduzione del debito che è già risicato (appena 0,7 punti previsti sul 2024) e che dunque scoraggia qualsiasi ipotesi di azzardo contabile. Per questo Giorgetti, nell’illustrarlo alle Camere ad aprile, e pensando alla legge di Bilancio, diceva di confidare in una crescita che andasse “ben oltre le stime prudenti considerate”: e dunque i dati dell’Istat di ieri sul secondo trimestre, per quanto interlocutori, non sono incoraggianti.
Insomma a rendere complessa la situazione non servirebbe certo l’incognita che le modifiche al Pnrr pongono a chi deve far tornare i conti. Al Tesoro, non a caso, sono categorici: in nessun caso le riallocazioni di risorse prospettate da Fitto possono ricadere sul bilancio ordinario. In ballo ci sono 16 miliardi: a tanto ammonta la spesa per i nove progetti che il governo ha deciso di eliminare dal Piano. E sì, Fitto ha garantito che per rifinanziarli si attingerà ai fondi europei di Sviluppo e coesione e ai 30 miliardi del Pnrr complementare. E tuttavia, occorre sottolineare come il rapporto diramato da Fitto la scorsa settimana “non specifichi quali saranno gli strumenti e le modalità attraverso i quali sarà mutata la fonte di finanziamento delle risorse definanziate dal Pnrr”, come osserva non a caso un dossier del Centro studi del parlamenti pubblicato due giorni fa, segnalando peraltro che “tale determinazione appare fondamentale al fine di verificare che le fonti alternative di finanziamento dispongano di una adeguata dotazione di competenza e di cassa nell’ambito del bilancio dello stato”. Chiarire ciò è fondamentale anche per comprendere se davvero, come Fitto prevede, quei 16 miliardi di euro svincolati dal Pnrr potranno andare a finanziare il grosso del 19 miliardi del RePowerEu. E però, a ben vedere, tutte queste incertezze non potranno essere chiarite – non nella forma ufficiale che servirà ai tecnici della Ragioneria generale – prima della redazione della Nadef, da licenziare a fine settembre. Perché il processo di approvazione delle modifiche al Pnrr, che il governo ha deciso di inviare a Bruxelles solo a ridosso della scadenza dei termini fissati al 31 agosto, richiederà fino a tre mesi: troppo tardi, dunque.
Al Mef da tempo lamentano come l’affanno sull’attuazione del Pnrr produca problemi di cassa: i 19 miliardi della terza rata previsti per marzo arriveranno, decurtati di 519 milioni, solo a settembre; i 16 miliardi per gli obiettivi di giugno sono ancora lontanissimi. Ora, oltre all’incidenza sui saldi annuali, rischia di esserci un problema anche di valutazione dell’impatto delle misure previste dal Pnrr e del RePower: in tal senso, pure il trasferimento dei progetti nei fondi di coesione crea perplessità, perché a quel punto la scadenza dei lavori posticipata (non più giugno 2026, ma fine 2027 o fine 2029) comporta una diluizione del tempo sulla spunta alla crescita. Si parla forse di pochi decimali, certo, ma nel “gioco d’incastri” contano pure quelli, e parecchio.