il dibattito
In Italia c'è stata eccome una stagione liberista. Una risposta a Capone e Stagnaro
Una fase economico-politica che ha prodotto meno progressività e più evasione: è ora di voltare pagina evitando di gettare il bambino con l’acqua sporca
Sul Foglio del 17 luglio Luciano Capone e Carlo Stagnaro (C&S) hanno espresso una serie di appunti critici (“La sinistra e i conti col neoliberismo”) a un mio articolo sul neoliberismo in Italia apparso sul Mulino on line qualche giorno prima. In questa replica intendo rispondere a queste critiche, partendo dalle questioni più generali per poi passare ad alcuni rilievi specifici.
Il potenziale positivo delle politiche neoliberiste adottate in Italia è limitato, mentre si sono manifestati gli aspetti negativi
Prima di far questo, voglio però ricordare i due principali obiettivi del mio articolo: (1) rispondere alla domanda di Angelo Panebianco sull’esistenza o meno di una fase neoliberista e (2) sulla base di una risposta affermativa al quesito, argomentare che, in assenza di una strategia economica coerente (sia in termini di crescita che di inserimento nel nuovo ordine economico internazionale che si andava formando attraverso la globalizzazione e l’integrazione europea), il potenziale positivo delle politiche neoliberiste adottate in Italia è restato limitato, mentre invece alcuni aspetti negativi di parte di queste politiche hanno prodotto un rafforzamento di problemi strutturali preesistenti, che si sono materializzati più fortemente che in altri paesi, ivi compresi quei paesi con una varietà di capitalismo simile alla nostra.
Quello che invece non c’è nel mio articolo, ma che C&S danno l’impressione che ci sia, è (a) una mia presunta critica delle politiche europeiste dei governi dell’Ulivo, nonché di coloro che le perseguirono; (b) una polemica esplicita contro le politiche neoliberiste del centro destra (“il vero obiettivo polemico del Mulino” scrivono C&S); e (c) l’argomentazione che in Italia ci sia stato troppo neoliberismo.
Inizialmente mi aspettavo che eventuali critiche si sarebbero focalizzate sull’esistenza stessa di una fase neoliberista in Italia. Per esempio, si può sostenere che l’esperienza italiana è troppo sui generis per poter parlare di una fase neoliberista vera e propria nel nostro paese (immagino, ma posso sbagliarmi, che questa sia la posizione di Panebianco). Tuttavia, su questo punto c’è convergenza tra me e C&S: c’è ben stata una fase neoliberista in Italia. C&S considerano che sia stata breve (sostanzialmente gli anni ’90, quando l’Italia ha intrapreso una serie di riforme per entrare nell’euro) ed essenzialmente, ma non completamente, eterodiretta (i governi dell’Ulivo consideravano che l’adozione di politiche neoliberiste fossero necessarie per perseguire gli obiettivi dell’integrazione europea). Io penso invece che la fase sia stata più lunga (inizia lentamente nella seconda metà degli anni ’80 e continua con alti e bassi fino alla fine degli anni ’10 di questo secolo). Inoltre, considero che la sua parte endogena non sia così debole come sembrano pensare C&S. E’ un dibattito a mio avviso interessante, che forse vale la pena di continuare ad approfondire.
Ma veniamo alle critiche di quel che non c’è nel mio articolo. Per quel che riguarda (a), C&S hanno ragione nel sottolineare il ruolo giocato dall’integrazione europea nell’adozione di una serie di misure di stampo neoliberista o ordoliberista (anche se sui fondamenti economici di alcune di esse – per esempio i criteri di Maastricht e le politiche fiscali che questi comportavano – esistevano dei dubbi). Per ragioni di spazio non mi ero soffermato sulla particolare dimensione europea, poiché in parte era coperta dall’affermazione fatta nell’articolo che l’Italia non poteva essere il prototipo del “non-neoliberismo in un paese solo”. Cionondimeno essa veniva menzionata esplicitamente: “In paesi come l’Italia, che non furono certo parte dell’avanguardia della rivoluzione neoconservatrice degli anni Ottanta, le politiche neoliberiste vennero adottate un po’ a la carte, sia in risposta agli sviluppi economici internazionale, sia per ragioni ideologiche e/o calcoli elettorali, sia per conformarsi alle regole del mercato unico europeo e dell’Unione Economica e Monetaria”. Come da questo C&S arrivino a concludere che il sottoscritto, rispolverando metodi vecchi di quasi un secolo, sarebbe tentato di mandare al confino (intellettuale immagino, dati i miei limitati poteri) con l’accusa di neoliberismo Andreatta, Ciampi, Reichlin, Amato, Napolitano, D’Alema e Vincenzo Visco, nonché addirittura il mio coautore Michele Salvati, mi è molto difficile da comprendere. For the record, la mia valutazione sull’adozione di politiche neoliberiste da parte dei gruppi dirigenti di partiti del centro-sinistra durante l’epoca neoliberista è stata formulata chiaramente (assieme al mio coautore e futuro confinato intellettuale) in Liberalismo inclusivo: “Il neoliberismo fini anche per far presa tra i modernizzatori all’interno dei partiti socialdemocratici e del Partito democratico statunitense. Per essi l’unica via praticabile per tornare al potere era quella di far proprio il nuovo paradigma, cercando di modificarlo per mitigarne gli effetti negativi e per promuovere un’agenda diversa da quella conservatrice. Tali sviluppi di fatto sanciscono il successo della narrativa neoliberista, che a questo punto è diventata veramente egemonica. Com’era accaduto in precedenza col compromesso socialdemocratico, tutte le forze politiche liberali finiscono per formulare le loro strategie e agire al suo interno. Destra e sinistra non scompaiono, le differenze restano e non sono di poco conto, ma le loro politiche si sviluppano nel contesto di uno spettro di opzioni ben definito, che è molto diverso da quello che l’aveva preceduto” (pp. 134-135). Non esattamente una fatwa.
Passiamo ora al secondo punto: è la polemica con il centro-destra il “vero obiettivo” del mio articolo sul Mulino (punto b)? Qui devo rimandare l’accusa di C&S al mittente. E’ vero che c’è una parte dell’articolo, quella sulla tassazione, che contiene alcuni spunti polemici col centro-destra italiano. Tuttavia, il punto non era tanto polemizzare con il centro-destra, quanto mettere in luce il fatto che il policy mix neoliberista in Italia ha avuto effetti positivi limitati e effetti collaterali negativi non trascurabili, il che aiuta in parte a spiegare le performance economiche insoddisfacenti del nostro paese. Questa critica è però ben poco rispetto al giudizio devastante di C&S nei confronti del centro-destra italiano: “D’altronde il Cavaliere, che secondo la vulgata avrebbe cavalcato la presunta ondata neoliberista che si è abbattuta sull’Italia, non ha toccato palla fino al 2001, quando ormai tutte le più importanti riforme ‘neoliberiste’ erano già state fatte dalla sinistra per entrare nell’euro” (il corsivo e’ mio). Ouch! “Tutte le più importanti riforme erano già state fatte dalla sinistra”? Tutte? Prodi meglio/più neoliberista di Reagan e Margaret Thatcher? Il povero Berlusconi lasciato senza lavoro (e il poco che gli restava da fare glielo rubò Bersani con le lenzuolate)? Anche se il tono di C&S può suonare meno polemico, la critica è ben più severa di quella del sottoscritto. Naturalmente potrebbe darsi che che il “tutte” sia stato un refuso e che il termine che si voleva utilizzare fosse “alcune”. Ma questo comporterebbe una critica ancor più feroce: pur avendone la possibilità, nel corso di quasi un decennio il centro-destra non ha fatto assolutamente niente. Almeno nel mio articolo si riconosceva che quest’ultimo aveva cercato di far qualcosa. Di conseguenza rigiro a C&S la critica rivoltami in forma di domanda: il vostro vero obiettivo polemico dell’articolo sul Foglio era forse il centro-destra?
Come sostiene Fukuyama l’importante è il grado di efficienza dello stato e delle sue istituzioni, non quanto stato c’è
Per quel che riguarda il punto (c), in nessuna parte dell’articolo si sostiene che in Italia ci sia stato un eccesso di neoliberismo o che la Spagna (il paese con cui viene effettuata la comparazione) sia cresciuto più in fretta dell’Italia perché è un paese più statalista (o in cui ci sono state politiche meno neoliberiste). Come già menzionato, per comprendere l’impatto del neoliberismo, penso che appropriato analizzare il modo in cui le politiche neolibersiste hanno interagito con le strutture economiche/la varietà di capitalismo del paese e valutarne gli esiti. C&S invece preferiscono utilizzare le categorie ideologiche di statalismo e neoliberismo, facendo dell’Italia la portabandiera dello statalismo. Se però consideriamo i quattro paesi Ocse con una spesa pubblica superiore a quella dell’Italia in percentuale del pil, vi troviamo Francia, Norvegia, Svezia e Danimarca. In questi paesi le performance economiche non hanno nulla da invidiare a quelle di paesi con percentuali di spesa pubblica inferiori. L’idea che meno stato c’è più si cresce in fretta, felici e contenti, non ha un solido fondamento (e quanto all’essere felici e contenti, in genere la Danimarca è in cima alle classifiche). Come sostiene, a mio avviso giustamente Francis Fukuyama in “Political Order and Political Decay”, l’importante è il grado di efficienza dello stato e delle sue istituzioni, non quanto stato c’è (naturalmente entro i limiti che caratterizzano le economie di mercato).
Veniamo ora rapidamente a due punti specifici sollevati da C&S nel loro articolo: la progressività del sistema di tassazione e l’evasione dell’Iva. Nel mio articolo la riduzione dell’aliquota massima era la constatazione di un fenomeno che è avvenuto in tutte le economie avanzate. Certo, se si allarga la base imponibile, si possono anche ridurre le aliquote dell’imposta sul reddito e ciononostante avere un sistema di tassazione altrettanto o più progressivo. Come ha notato Vincenzo Visco in La guerra delle tasse, “se la riduzione delle aliquote fosse stata compensata dalla tassazione di tutti i redditi di capitale senza più deroghe e privilegi, la progressività effettiva sarebbe aumentata e l’intero sistema sarebbe diventato più equo. Sfortunatamente, alla fine, la mattino” (p.14). Di conseguenza, le misure prese da molti dei governi che si sono alternati alla guida del paese nella fase liberista, hanno finito per ridurre la progressività del sistema di tassazione e hanno finito per far gravare l’imposizione soprattutto sulle classi medie con reddito da lavoro dipendente, anche a causa della forte evasione fiscale.
Colpa dell’evasione è solo l’inefficienza dell’Agenzia delle entrate? O è stata incentivata dalla teoria “starve the beast”?
Parlando della quale, C&S nel loro articolo menzionano come sviluppo positivo il fatto che in Italia negli ultimi trent’anni l’evasione dell’Iva. Ciò contraddirrebbe l’affermazione che la narrativa neoliberista ha fornito un collante ideologico all’evasione fiscale. Questo argomento è lungi dall’essere dirimente. All’inizio degli anni ’80 evadere l’Iva era semplicissimo. Bastava che il compratore e il venditore si mettessero d’accordo ed era molto difficile per la Guardia di Finanza provare che la transazione era avvenuta. Ci mancherebbe solo che dopo quarant’anni di grida manzoniane, ma anche di da tentativi seri per far fronte al problema, per esempio quelli di Vincenzo Visco quando fu ministro delle finanze, l’evasione dell’Iva fosse rimasta al 35-40 per cento. Con il tracciamento delle operazioni, i controlli incrociati ed altri metodi di verifica, l’evasione dell’Iva non poteva che ridursi. Però, ancora nel 2019 il gap dell’Iva in Italia si situava al 21,8 per cento. In Germania, Francia, Spagna e pure Portogallo si situava sotto il 10 per cento. Peggio di noi facevano solo la Romania (35,5 per cento) e Malta (26 per cento) e la Grecia (23,4 per cento) (non uso i dati del 2020, che sono distorti dalla pandemia). Possibile che la colpa sia solo dell’inefficienza dell’Agenzia delle entrate? O non vi è invece anche un malcostume diffuso, aggravato e incentivato da ripetuti condoni, a cui la teoria della starve the beast in modalità fai-da-te fa si che quando parliamo di gap dell’Iva ci troviamo in compagnia di Grecia e Malta invece di essere con gli altri paesi Ue del G7 o paesi a noi vicini (non solo geograficamente) come Spagna e Portogallo?
La narrativa neoliberista è entrata in una crisi irreversibile prima con la Crisi Finanziaria e dopo con la pandemia
Un’annotazione finale. All’inizio dell’articolo C&S decretano la vittoria finale del neoliberismo sullo statalismo e una sorta di fine della storia per quel che riguarda le narrative economiche. Certo, la narrativa del compromesso socialdemocratico entrò in crisi con la stagflazione degli anni ’70 e la narrativa neoliberista la sostituì a partire dagli anni ’80. Tuttavia, C&S dimenticano (o rifiutano di riconoscere) che la narrativa neoliberista è entrata in una crisi difficilmente reversibile prima con la Grande Crisi Finanziaria (inconcepibile nello schema teorico del neoliberismo) e poi con la pandemia. Questa crisi è il frutto della sua incapacità a fornire soluzioni di politica economica adeguate a questi eventi. Inoltre, nel corso di questo secolo è diventato sempre più evidente che la narrativa neoliberista non dispone di strumenti credibili per affrontare sfide epocali come il cambiamento climatico o problemi socio-economici pressanti come l’aumento delle diseguaglianze.
Guardando avanti, la questione su cui riflettere e confrontarsi è quella del tipo di politiche che bisognerà adottare nella fase post-neoliberista, evitando di gettare il bambino con l’acqua sporca. A questo riguardo, come scrivevo nell’articolo per Il Mulino, “le politiche catalogate come neoliberiste non sono da rigettare in blocco, in particolare in un Paese caratterizzato da pesanti rigidità strutturali come l’Italia”. Di converso, “una misura non è necessariamente buona perché non appartiene all’arsenale neoliberista”. Anche qui vale il principio di come le diverse misure vengono aggregate in un approccio coerente e di come quest’ultimo si adatta alla struttura economica e sociale del paese e trasforma il suo regime di crescita. Una tale riflessione e confronto consentirebbe di affrontare un’altra importante questione implicita nell’articolo di Panebianco: è possibile mettere assieme un tale approccio coerente o in fin dei conti la critica del neoliberismo è solo una critica del capitalismo, senza però una pars construens?
Rispondono di Capone e Stagnaro:
Ringraziamo Dilmore per la risposta. Questo tipo di dibattito è salutare non solo perché consente a ciascuno di cogliere le prospettive altrui, ma anche perché dimostra che ci si può confrontare senza scagliare reciproci anatemi (come spesso accade). Nel merito, accettiamo di buon grado alcune considerazioni ma ci teniamo a fare quattro precisazioni. Una è lessicale: Dilmore cita un passaggio del nostro articolo in cui scrivevamo che, quando il centrodestra arrivò al potere, “tutte le più importanti riforme neoliberiste erano già state fatte dalla sinistra”. Ciò non significa che Romano Prodi fosse l’emulo italiano di Margaret Thatcher e che dunque al povero Cavaliere non fosse rimasto più nulla di neoliberista da fare. Significa – e ci scusiamo se non era chiaro – che praticamente tutte le (poche) riforme neoliberiste che l’Italia ha sperimentato in questo trentennio erano state attuate nel contesto dell’adesione all’euro. Ed è paradossale che proprio il centrosinistra, che di quella stagione fu protagonista, sia oggi quello che con più forza allontana da sé l’amaro calice del neoliberismo. Sul nostro giudizio del centrodestra, Dilmore ha ragione: riteniamo che l’esperienza dei governi Berlusconi, almeno in punto di neoliberismo, sia stata fallimentare. Questo ci porta agli altri punti, su cui ribadiamo che, dati alla mano, Dilmore attribuisce al neoliberismo e al centrodestra delle responsabilità che non sono né dell’uno né dell’altro semplicemente perché il fatto non sussiste. Dilmore ribadisce che, a causa delle riforme fiscali (volute soprattutto dal centrodestra ma nei fatti avallate dal centrosinistra), in particolare col taglio delle aliquote marginali dell’Irpef, la progressività sia diminuita. Non è così: la progressività è aumentata. Torniamo a citare lo studio di Massimo Baldini, Silvia Giannini e Simone Pellegrino – che certo non sono neoliberisti – i quali hanno studiato proprio l’effetto del cambiamento delle aliquote: “Negli ultimi quarant’anni l’effetto redistributivo dell’Irpef è quasi raddoppiato”, col risultato che abbiamo “un’imposta tendenzialmente più equa oggi rispetto agli anni Settanta, con aliquote medie inferiori fino a 20 mila euro (dove si concentra più della metà dei contribuenti) e superiori successivamente”. Si può legittimamente ritenere che il fisco italiano non sia abbastanza progressivo; ma oggi lo è comunque più che prima della presunta ondata neoliberista. Stesso discorso per quanto riguarda l’evasione fiscale: fenomeno certamente rilevante nel nostro paese e gravemente nocivo, non solo per ragioni di equità sociale, ma anche perché ha enormi conseguenze sulla struttura delle nostre imprese (e in particolare sul loro nanismo). Dilmore chiede retoricamente se “non vi è invece anche un malcostume diffuso, aggravato e incentivato da ripetuti condoni” legittimati dalla “teoria della starve the beast in modalità fai-da-te”. Ebbene, se il punto è che c’è ancora troppa evasione siamo d’accordo. Se invece è che l’evasione è aumentata (o non diminuita) non siamo noi, ma i dati a contraddirlo. Dilmore ritiene che questo sia merito della tecnologia, il che è vero: ma l’uso della tecnologia nel contrasto all’illegalità non è frutto di una immacolata concezione. E’ conseguenza di decisioni politiche (magari insufficienti) prese proprio negli anni del neoliberismo. Il fatto poi che paesi che hanno avuto storie e riforme liberiste più profonde rispetto all’Italia abbiano un’evasione più bassa rispetto all’Italia, dovrebbe scagionare il “neoliberismo” da questa accusa. Infine, Dilmore cita Francia, Norvegia, Svezia e Danimarca come paesi che, pur avendo una spesa pubblica superiore all’Italia, hanno una performance economica migliore, e li chiama sul banco dei testimoni per provare che non di solo neoliberismo si alimenta la crescita economica. Posto che su questa ultima affermazione non c’è dubbio alcuno, almeno tre di questi paesi (Danimarca 49,9 per cento, Norvegia 48,3 per cento e Svezia 49,2 per cento) hanno una spesa pubblica molto più bassa di quella dell’Italia (55,1 per cento – dati Ocse 2021). I paesi nordici, che certamente hanno un pesante apparato fiscale redistributivo, sono anche caratterizzati da riforme “neoliberiste” in campi come l’istruzione, il lavoro, il fisco e la regolamentazione in generale. Anch’essi hanno vissuto la loro stagione neoliberista, che è stata più intensa della nostra (non che ci volesse molto), tanto che negli ultimi 30 anni Danimarca, Svezia e Norvegia hanno ad esempio notevolmente ridotto la quota di spesa pubblica in rapporto al pil, mentre l’Italia l’ha aumentata. Nessuno (noi inclusi) dice che il neoliberismo potrebbe curare tutti i mali italiani: se nel nostro paese ha prodotto meno benefici che altrove, e maggiori danni, forse il problema non sta nei guasti del neoliberismo, ma nel fatto che lo abbiamo conosciuto col contagocce.