Il tagliando del Rdc
Reddito di cittadinanza, i limiti del taglio “al buio” fatto dal governo e tre idee per una vera riforma
Se si vuole migliorare l’occupabilità dei beneficiari bisogna investire e non tagliare nel breve periodo, così da poter poi raggiungere risparmi e potenzialmente anche guadagnare nuove risorse nel medio periodo
Sul Reddito di cittadinanza (Rdc), il governo brancola nel buio. Ma è un buio che i creatori del Rdc hanno contribuito a creare. Non tutti ricorderanno che ai tempi della creazione del sussidio si aprì un breve dibattito sulla valutazione della sua efficacia. La legge istitutiva ha affidato interamente al ministero del Lavoro, e a un comitato scientifico scelto dal ministero, la responsabilità di valutare il Rdc. Valutazione che, a oggi, non è mai arrivata. Eppure si sarebbe potuto fare molto, in questi quattro anni. E’ bizzarro come proprio l’Inps, che ha da anni istituito un programma di avanguardia di accesso ai dati a ricercatori esterni con l’obiettivo di creare una fonte “di ricerca, di analisi e di monitoraggio delle politiche legate al mercato del lavoro e al welfare state italiano”. (c.d. programma Visitinps, a cui chi scrive ha partecipato), non abbia condotto fino a oggi alcuna valutazione.
Così, ora, sul Rdc non sappiamo nulla oltre qualche numero aggregato. Non sappiamo quanti siano gli individui realmente “attivabili”, né come attivarli, né chi sia in grado di farlo. Non sappiamo quanti percettori abbiano trovato un lavoro e, soprattutto, se lo abbiano trovato grazie ai Centri per l’impiego (Cpi) o ai 3 mila navigator.
L’immagine che emerge dai pochi dati disponibili non è confortante. Secondo uno dei più recenti rapporti Inapp (uno degli enti coinvolti nella valutazione), tra coloro che erano potenzialmente occupabili, meno di uno su due è stato contattato da un Cpi. Tra questi, solo il 40 per cento ha sottoscritto il patto per il lavoro. Di questi, solo uno su due ha ricevuto un’offerta (siamo quindi all’8 per cento del totale), e solo uno su cinque l’ha accettata. Andando a vedere i motivi del rifiuto, si scopre che per 3 su 4 la proposta non è in linea con le competenze o il titolo di studio (e per un altro 12 per cento la retribuzione è troppo bassa). Da questo quadro è difficile sapere se si tratti di un problema di domanda (cosa richiedono i beneficiari) o di offerta (cosa viene loro proposto dai Cpi), ma emerge chiaramente che l’inserimento lavorativo è quanto mai complesso.
Oltre il dato aggregato, la frammentazione del sistema e la coesistenza di molteplici enti che rispondono ad autorità differenti (servizi sociali dei comuni, Cpi delle Regioni, Anpal, Inps), rende oggi sostanzialmente impossibile avere una mappatura del fenomeno, dalla presa in carico fino all’attivazione lavorativa. Eppure i dati di base ci sarebbero tutti e se ne potrebbe fare un uso molto più intelligente. Basterebbe farli parlare tra di loro, come avviene in Francia e in Germania. Questo permetterebbe di fare almeno tre cose per dare risposte concrete ai problemi posti dalla riforma del Rdc.
Primo: mappare le imprese che potrebbero assumere i percettori. L’Inps (e il ministero del lavoro), grazie alle comunicazioni obbligatorie, hanno accesso a dati che permetterebbero di identificare le imprese in espansione (con un tasso netto di assunzione positivo negli ultimi mesi) e la tipologia di lavoratori assunti. Tali aziende potrebbero essere contattate per proporre loro l’assunzione, dietro un potenziale incentivo, di lavoratori attualmente percettori di Rdc.
Secondo: analizzare la performance dei Cpi e individuare eventuali criticità, così da poter indirizzare al meglio risorse e strutture di supporto. In Germania, grazie all’uso dei dati amministrativi, alcuni studi hanno valutato l’efficacia dell’operato dei singoli impiegati delle agenzie per l’impiego.
Terzo: aumentare la collaborazione tra Cpi e agenzie private dove c’è maggiore necessità. Una volta individuate le situazioni più critiche, si potrebbe fornire alle agenzie un sistema di compensazione che aumenta con la complessità del bisogno dell’utente preso in carico, così da evitare fenomeni in cui le agenzie si impegnano a trovare lavoro solo ai lavoratori più facilmente occupabili lasciando indietro gli altri. Anche qui, la Germania è d’esempio: un recente studio ha mostrato come, dopo le riforme del lavoro Hartz, la ristrutturazione dell’agenzia per l’impiego tedesca abbia migliorato drasticamente il reinserimento nel mercato del lavoro anche grazie a un più intenso ricorso al mercato privato.
Rimane il problema di fondo: con la riforma del Rdc il governo si pone due obiettivi (risparmi di spesa e attivazione dei beneficiari) con un solo strumento (il taglio del Rdc). Una ricetta destinata a fallire. Se si vuole migliorare l’occupabilità dei beneficiari bisogna investire e non tagliare nel breve periodo, così da poter poi raggiungere risparmi e potenzialmente anche guadagnare nuove risorse (in termini di nuove tasse) nel medio periodo. Proprio come accaduto in Germania.