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l'editoriale del direttore

Scambiare l'innovazione con il marchettificio. L'errore passatista del governo

Claudio Cerasa

Robotica, Spid, vaccini, startup, chip e gigafactory. Niente di fatto. In dieci mesi l’esecutivo ha messo in luce solo il suo volto deprimente e peggiore: la paura di modernizzare. E ora Ryanair è pronta ad andarsene

Gli extraprofitti? Li combattiamo. Le grandi multinazionali? Le contrastiamo. Lo Spid? Non lo vogliamo. Uber? La detestiamo. I vaccini? Non ne parliamo. La carne sintetica? Non la produciamo. Amazon? La osteggiamo. La farmaceutica? La snobbiamo. Il Pos? Lo detestiamo. Ryanair? La allontaniamo. L’innovazione? Ce ne freghiamo. Le notizie degli ultimi giorni – complice un masochistico Consiglio dei ministri con cui lunedì scorso il governo, in perfetta continuità con le dichiarazioni di qualche giorno prima del ministro dello Sviluppo Adolfo Urso, detto Urss, che aveva promesso di combattere con tutte le sue forze le multinazionali, ha scelto, dopo aver fatto l’ennesimo regalo ai tassisti, di dichiarare guerra agli extraprofitti delle banche affossando per un giorno la Borsa italiana – hanno messo di fronte agli occhi degli osservatori internazionali una domanda complicata da maneggiare e che brutalmente potremmo sintetizzare così: ma sull’innovazione, l’Italia, l’Italia della destra, ha o non ha qualcosa da dire? La risposta a questa domanda potrebbe essere articolata, lunga, profonda, ma potrebbe essere anche molto sintetica, riassumibile in una parola di due lettere: no. Nei primi dieci mesi di governo, la destra italiana ha cercato in tutti i modi di mostrare un profilo rassicurante, sui grandi temi, e ha tentato di mostrarsi non pericolosa su tutta una serie di dossier delicati. Dall’Europa all’atlantismo. Dall’antifascismo all’Ucraina. Dal debito pubblico alle politiche pro crescita. Se c’è un fronte però su cui la destra è riuscita a mettere in luce il suo volto peggiore, il più pericoloso, il più deprimente, il più nostalgico, quel fronte ha certamente coinciso con il mondo dell’innovazione. La destra meloniana ha scelto di considerare il mondo dell’innovazione più come un motore di marchette che come un motore di sviluppo. E il suo governo, finora, ha mostrato in ogni occasione utile il suo volto luddista. Ha eliminato il ministero dell’Innovazione, pur essendo l’innovazione al centro del Pnrr. 

 

Ha scelto di affidare la gestione degli 11,3 miliardi previsti dal Pnrr per la digitalizzazione, l’innovazione e la sicurezza nella Pa a un sottosegretario, di nome Alessio Butti, che finora si è distinto nella sua azione di governo solo per aver dichiarato a borse aperte la volontà di nazionalizzare Tim. Ha scelto, per la gioia di Adolfo Urso, detto Urss, di introdurre norme anti mercato per “calmierare” alcune tariffe aeree, facendo leva sulla presunzione di colpevolezza dei cattivissimi gestori delle compagnie aeree (ieri il capo di Ryanair ha giustamente minacciato il governo di disimpegnarsi dall’Italia: d’altronde Urss non voleva far scappare le grandi multinazionali?). Ha scelto, in ogni occasione utile, di mostrare agli elettori la propria diffidenza nei confronti del settore tecnologico – e anche lunedì scorso, quando il governo ha tentato di mostrarsi attento al tema dell’innovazione non è riuscito a fare nulla di meglio che approvare in Consiglio dei ministri un credito di imposta maggiorato per la ricerca e lo sviluppo nel settore dei semiconduttori da 700 milioni, destinando al settore un investimento pari a quanto stanziato per l’ultima trance di Alitalia: spiccioli. E mentre Macron cerca un modo per far diventare la Francia la prossima gigafactory europea. Mentre la Germania ha scelto di diventare l’hub europeo nella costruzione dei microchip, facendo arrivare nel proprio paese anche i taiwanesi di Tsmc (investimento da 10 miliardi, con il governo tedesco che ne ha stanziati cinque). Mentre succede tutto questo, l’Italia di Meloni non solo non ha mosso un dito per cercare di non perdere un investimento miliardario, come quello progettato da Intel in Italia ai tempi di Draghi, ma non ha trovato una sola occasione per dimostrare, con i fatti, di avere uno straccio di idea sulla tecnologia pubblica, sull’intelligenza artificiale, sulla creazione di software, sulla robotica industriale, mostrando un disinteresse totale rispetto a uno dei gap più preoccupanti del nostro paese: la scelta di investire, in ricerca e sviluppo, una quota di pil pari all’1,6 per cento, inferiore alla già bassissima media europea, a sua volta pari al 2,3 per cento. E come se non bastasse, un ddl sul made in Italy molto attento al “recupero delle tradizioni”, alla “valorizzazione dei mestieri”, “alle produzioni d’eccellenza”, “alle bellezze storico-artistiche”, “alle radici culturali nazionali”, “ai fattori da preservare e tramandare non solo a fini identitari ma anche per la crescita dell’economia nazionale”. Ma che sceglie di non dedicare neppure una riga al vero elemento che contraddistingue il made in Italy nel mondo: la robotica. Il governo finge di non saperlo, forse, ma l’Italia è quinta al mondo tra i paesi esportatori di beni strumentali nei comparti automazione, creatività e tecnologia, con un export che vale quasi 28 miliardi di euro e un export potenziale di ulteriori 16 miliardi.

 

Ma tutto questo al governo importa poco. Zero attenzione all’automazione industriale. Zero attenzione alla farmaceutica. Zero attenzione alle imprese high tech. Zero attenzione alle start up. La ragione per cui Meloni ha scelto di portare avanti una forma di luddismo, sul fronte tecnologico, ha una sua logica dal punto di vista elettorale. La destra nazionalista è convinta che l’innovazione faccia paura ai propri elettori, ai piccoli imprenditori, agli artigiani, e crede con forza che sostenere, politicamente, il mondo della robotica, della concorrenza, della globalizzazione possa essere percepito dai cittadini non come un inno al futuro, o alla crescita, ma come un assist per la distruzione di posti di lavoro. E’ una scommessa pericolosa, controproducente, tossica, nociva, che ha trasformato il pensiero conservatore, sul tema dell’innovazione, in un veicolo messo a disposizione della difesa dello status quo. In un momento in cui, invece, nel silenzio, l’Italia cerca di rinnovarsi, di innovarsi, di guardare al futuro, persino di investire sulla cultura del rischio (tra il 2013 e il 2021, come notato due giorni fa da una ricerca della Fondazione ricerca e imprenditorialità realizzato in collaborazione con Srm Centro studi e ricerche del gruppo Intesa Sanpaolo, il numero di startup innovative in Italia è cresciuto dell’860 per cento, passando da 1.467 a 14.077; si stima che arriveranno a 23 mila nel 2027; e parallelamente si sta sviluppando anche un mercato dei servizi professionali nella cosiddetta open innovation che oggi vale 2 miliardi di euro ma che può arrivare fino a circa 4,3 miliardi). E il punto è proprio questo.

 

Considerare l’innovazione un marchettificio, trasformare il conservatorismo in un asset a difesa dello status quo, trasformare la robotica in un nemico pubblico del paese non è solo un danno per il futuro dell’Italia ma è anche un danno micidiale per tutti coloro che sanno che senza cultura del rischio l’Italia corre il pericolo di rimanere impantanata a lungo nel suo immobilismo. Senza innovazione non c’è competizione. Senza competizione non c’è crescita. Senza crescita non c’è futuro. L’innovazione è il vero tallone d’Achille del governo. E quando il centrosinistra deciderà di uscire  dalla bolla dell’antifascismo potrebbe capire che le vere praterie per conquistare il paese passano da qui: non dalla capacità di usare il passato per ferire il governo ma dalla capacità di utilizzare il futuro per mostrare l’inadeguatezza di chi ci governa. “Da oggi – ha detto con ironia due giorni fa Luigi Marattin, parlamentare di Italia viva, dopo le norme approvate in Cdm – se sei un imprenditore in un settore che sta andando particolarmente bene stai attento: se il governo decide che stai facendo un po’ troppi profitti, te li viene a requisire”. Innovazione in Italia? Anche no, grazie.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.