Centralizzare l'intelligence. Così Meloni prepara la rivoluzione nei servizi segreti

Valerio Valentini

Archiviare Aisi, Aise e Dis e creare un'unica struttura per spionaggio interno ed estero. L'ipotesi di una proposta di legge entro l'anno: ci lavora il sottosegretario Mantovano. Quegli incontri riservati a Piazza Dante per definire il progetto. Le obiezioni di Guerini

Proclami in vista non ce ne sono perché la materia è delicata assai: una riforma organica dei servizi segreti, figurarsi. E poi l’idea, al momento, è appunto poco più che questo: “un’ipotesi di lavoro”, dicono a Palazzo Chigi. E però l’ipotesi deve avere già una sua consistenza, se è vero che i seminari a porte chiuse organizzati nella sede del Dis, a Piazza Dante, si sono susseguiti da gennaio a luglio, e hanno visto la partecipazione dei massimi esperti del settore, e poi i vertici dell’intelligence attuali e passati, da Gianni Letta a Franco Gabrielli. Consultazioni condotte in gran riserbo, comme il faut, da cui sono emerse varie sollecitazioni sulle possibili, forse necessarie, iniziative da adottare per rafforzare la struttura dei servizi.

Una, tra le altre, è quella che Giorgia Meloni ha voluto recepire, ed è intorno a questa che Alfredo Mantovano, il sottosegretario alla Presidenza con la delega ai servizi, sta lavorando: con discrezione ma non senza sollecitudine, se davvero l’intenzione è quella di definire una bozza di riforma entro l’anno. La cosa farà rumore, c’è da prevedere, perché l’idea, “l’ipotesi di lavoro” appunto, è per certi versi dirompente: e consiste, cioè, nell’unificare l’intelligence in un’unica struttura, superando dunque l’attuale divisione dei ruoli tra Aisi e Aise, impegnate rispettivamente per i servizi interni ed esteri, col Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, a svolgere una funzione di coordinamento.

E’ l’architettura, questa, introdotta dalla legge 124 del 2007: e dai consiglieri di Meloni è ritenuta, proprio in virtù di questa sua longevità, ormai anacronistica. Perché in sedici anni è cambiato il mondo, evidentemente, e quello dell’intelligence, di mondo, s’è complicato in modo notevole. Per cui oggi si fa fatica a capire se un attacco hacker pianificato a Mosca che manda in tilt  una Asl abruzzese debba essere qualificato come una minaccia estera o interna. E l’antiterrorismo, poi? Un potenziale attentatore residente a Pavia, che mantiene costanti contatti con una cellula jihadista di base a Bruxelles, e sulla cui attività bisogna indagare coinvolgendo sia la polizia locale sia agenzie di sicurezza di paesi alleati, è un caso su cui deve impegnarsi l’Aisi o l’Aise?

Una possibile risposta starebbe nell’auspicare una collaborazione leale e costante tra i due apparati, sotto la supervisione vigile del Dis. Ma nella pratica, troppo spesso l’autonomia di ciascuna agenzia sconfina nella gelosia delle fonti, nella diffidenza a condividere informazioni, e insomma in una inevitabile reciproca diffidenza. Quanto al Dis, molti degli addetti ai lavori ritengono le sue prerogative, oltreché le sue risorse, non sempre adeguate a sovrintendere a questa complessa, delicata trafila.  E dunque, che fare?

Meloni vorrebbe intervenire. Senza fretta, ma con decisione. E per farlo, però, dovrà inevitabilmente superare delle complicazioni. La prima riguarda il rapporto coi vertici delle tre agenzie. Un rapporto che la premier ha curato con scrupolo – qualcuno dice perfino con una certa paranoia, ma chissà – e fin da prima di ricevere il mandato a formare un governo da Sergio Mattarella. Non a caso, sia Elisabetta Belloni al Dis, sia Mario Parente all’Aisi, sia Giovanni Caravelli all’Aise, sono stati tutti confermati, a dispetto di una retorica elettorale che preannunciava ovunque stravolgimenti. Ora, in teoria è evidente che una riforma come quella a cui il governo sta pensando non mette in discussione le persone, le loro qualità, ma la struttura complessiva. Ma dal cambio di questa struttura, i destini delle persone dipendono: e dunque il tutto andrà maneggiato con delicatezza.

Lo stesso vale per il rapporto con le opposizioni. Prassi e grammatica istituzionale, e sono cose su cui anche il Quirinale tiene particolarmente, vogliono che in materia di intelligence non si proceda a colpi di maggioranza. E in effetti il metodo finora seguito da Mantovano dice di una volontà di coinvolgere il più possibile. E però i riflessi pavloviani saranno inevitabili, a sinistra e non solo: un governo di destra  che vuole centralizzare i servizi segreti, roba da svolta autoritaria, roba da rievocare il passato non sempre glorioso dei servizi italiani, e giù paragoni con gli Anni di piombo, e la strategia della tensione, e il Grande vecchio.

Tuttavia, al di là delle obiezioni più scenografiche, c’è di più. Ed è lì che la discussione politica dovrà consumarsi. Perché è vero che, nello schema abbozzato a Palazzo Chigi, una maggiore centralizzazione della struttura d’intelligence prevede anche, di riflesso, un complementare potenziamento dell’organismo parlamentare deputato a vigilarvi, e cioè il Copasir. E però proprio Lorenzo Guerini, che del Comitato è presidente e che è stato, pure lui, coinvolto in questo confronto preliminare, è ben determinato a ribadire quel che ha già espresso di recente in un convegno al Senato, alla presenza di Gianni Letta, e cioè che ragioni evidenti per unificare le agenzie non se ne vedono, a suo avviso, e che del resto basta guardare fuori dai confini nazionali per comprendere come l’accentramento sarebbe inusuale: perché a parte la Spagna, le grandi democrazie occidentali vedono una presenza di numerose strutture con compiti differenziati. Francia, Germania, Regno Unito: tutti hanno due agenzie distinte per interni ed esteri. Gli Stati Uniti, poi, ne hanno ben diciassette.

Che poi in realtà centralizzare sia anche un modo per migliorare il controllo istituzionale, che la proliferazione degli apparati comporti rischi di sovrapposizioni altrettanto pericolosi, e una fatica quotidiana necessaria a evitare forzature, questo è ciò di cui Mantovano e Meloni dovranno convincere i loro interlocutori. E la discussione, non è difficile ipotizzarlo, sarà lunga. 
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.