tre anni dopo
Blaterare non è prevenire. La costosa scienza della "preparedness"
Chi ha esperienza delle emergenze sa distinguere tra e prevenzione e risposta alla crisi. In Italia abbiamo eccellenti protettori, ma una classe politica che non sa programmare. Ci si interroghi a fondo su questo
Chi come me ha vissuto per anni nel mondo delle emergenze ha imparato a distinguere tra preparazione e prevenzione dalla risposta alla crisi e sa bene che questi sono momenti decisamente diversi che devono essere affrontati con strumenti, metodi di intervento e risorse differenti. Gli operatori della protezione civile sanno bene che l’emergenza si gestisce con l’esercito che hai a disposizione, con la struttura e le risorse umane che hai costruito e formato in tempo di pace, e che in guerra, sempre utilizzando una ben nota metafora militare, si combatte con tecniche e strumenti conosciuti. Non si inventa né si sperimenta mai nulla nel momento acuto della crisi: nel caso quella sperimentazione è destinata a essere un fallimento ancora peggiore di quello che potresti avere combattendo con le sole risorse a disposizione.
La Protezione civile italiana è oggi conosciuta per essere una delle migliori strutture operative esistenti in Europa e nel mondo, i nostri Vigili del fuoco sono riconosciuti essere le squadre di SAR (Search and rescue) al momento più competenti in campo internazionale. Insomma nella gestione delle crisi siamo i migliori, ma altrettanto non si può dire nella prevenzione e preparazione alle crisi. E questo lo si vede nelle ripetute emergenze idrogeologiche o all’indomani dei tanti terremoti che, pur con magnitudo contenuta, provocano vittime e distruzioni diffuse in ragione della povertà costruttiva delle nostre abitazioni. E ogni volta che un disastro accade assistiamo alle note litanie che ci ricordano che la prevenzione è meglio dell’emergenza, che un euro speso in prevenzione corrisponde a dieci spesi dopo una crisi distruttiva. Le stesse litanie ci rivelano poi di risorse, spesso anche rilevanti, disponibili ma mai spese per progetti che avrebbero potuto salvare vite umane e l’ambiente che ci circonda, di scarsi investimenti nella prevenzione e nulla nella educazione, per cui ogni volta dobbiamo piangere le vite perdute per sciocchi errori comportamentali che vediamo compiere in situazioni di emergenza. E se questi assunti valgono per le classiche emergenze di protezione civile, li possiamo adattare perfettamente alla pandemia di Covid dalla quale forse stiamo oggi, pur a fatica, uscendo. Covid ha bene rappresentato nel nostro paese e in gran parte del pianeta le criticità della prevenzione e preparazione alle crisi nei confronti di emergenze sanitarie.
L’Oms aveva in tempi non sospetti enunciato la necessità per tutti gli stati della predisposizione di un piano pandemico. Tutti hanno reagito predisponendo un fascicolo cartaceo utile a dimostrare di aver fatto i compiti a casa. Ma gli effetti di quell’esercizio sono stati poco efficace nella realtà, laddove gli assunti dei fascicoli non sono stati messi in atto. E’ però difficile spiegare a chi non ha cultura di gestione delle crisi cos’è un piano di emergenza, è difficile convincere chi ha una cultura squisitamente burocratica che il “PIANO” non è un fascicolo cartaceo che risponda a esigenze amministrativo-contabili, ma un processo formativo, educativo, di preparazione e di investimento. La “preparedness” è una scienza costosa e come usiamo dire in protezione civile, non si vincono le elezioni con la prevenzione. E bene lo sa chi è diventato onorevole distribuendo fantomatiche ricette statistiche sugli errori compiuti da altri.
L’Italia aveva un piano pandemico, quel fascicolo più o meno aggiornato esisteva negli archivi del ministero della Salute; il vero limite è che quei capitoli così precisi ed elaborati non erano stati tradotti in azione sul territorio; a mia conoscenza ben poche aziende sanitarie avevano investito e speso per essere pronte a un’emergenza improbabile e difficilmente prevedibile. E i tanti attuali pontefici del senno di poi non hanno il coraggio di ricordare questi limiti del sistema sociale e sanitario del nostro paese, non solo delle persone, politici e tecnici che fossero, che al momento governavano quel sistema. Da protettore civile quale mi considero e proprio avendo avuto esperienze di altri piani di emergenza di cui si nutre il nostro sistema dissi all’epoca che noi non avevamo un vero piano pandemico, solo in ragione del fatto che io non considero un piano il fascicolo cartaceo; per me un piano è una azione costante, e prolungata nel tempo, fatta di risorse, investimenti, di cultura diffusa e verificata.
Non si capisce allora per quale ragione in assenza di condotte criminose bene identificate, e mi pare che la sentenza del Tribunale dei ministri di Brescia questo abbia sottolineato, si cerchino ancora tra i soccorritori le responsabilità che invece dovrebbero essere ricercate in decenni di trascuratezza nel mondo della sanità pubblica, della scuola, dei trasporti etc. REATI NO MA ERRORI SI’: è un’affermazione grave perché quantomeno imporrebbe una precisa definizione del termine errore, soprattutto se associato a reato. Chi ha vissuto la gestione di crisi gravi bene sa che di errori sono lastricate le strade dei soccorritori, ed è a questo che ci si prepara soprattutto quando sei di fronte ad un nemico sconosciuto ed imprevedibile. Per questo sentire pontificare con il senno di poi è inaccettabile, veramente. E questo dovrebbe essere, a mio parere, l’obiettivo della Commissione parlamentare di inchiesta, verificare i vuoti politici e tecnici, le carenze storiche, le responsabilità di chi avrebbe dovuto operare per arrivare preparati alla grande crisi e negli anni non ha fatto quello che doveva essere fatto. Analizzare anche le criticità affrontate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale. Capire cosa avrebbe potuto fare di più e meglio l’Unione cui apparteniamo, quella di Bruxelles ad esempio, piuttosto che l’Oms. Capire meglio come governare in Italia una crisi sanitaria planetaria adeguando la modifica del Titolo V della nostra Costituzione in modo di poter avere un approccio nazionale, omogeneo e non frammentato e diversificato.“Criticità, omissioni e sottovalutazioni del rischio epidemico con riferimento alla mancata zona rossa”. Mi viene da ridere nel leggere queste considerazioni oggi quando mi accorgo che sono tutti diventati esperti di gestione delle macro emergenze e utilizzano termini di cui non hanno ancora oggi piena contezza.
Mi piacerebbe infatti sapere quanti di costoro che, a distanza di tre anni dalla fase acuta della crisi, fanno queste affermazioni conoscevano il termine lockdown ai primi di gennaio del 2020 e avevano contezza del significato di quel termine, del senso pratico di questo tipo di limitazione della vita pubblica e privata della popolazione. Cosa implicava per le autorità del territorio e dello Stato garantire la sicurezza, la distribuzione dei beni essenziali, la fornitura dei servizi (acqua, luce, gas) a milioni di persone improvvisamente “recluse” nelle proprie abitazioni. Per non parlare dell’interruzione dei servizi sanitari ordinari e soprattutto quelli di prevenzione che, se non hanno dato evidenza immediata del loro impatto, l’hanno data nei mesi successivi con aumento del numero delle persone con tumori non identificati in tempo grazie ai programmi di prevenzione del cancro della mammella, dell’utero, del colon o della prostata, servizi che per mesi sono stati interrotti. Quanti pontificano oggi di mancato lockdown dimenticano che all’epoca la politica urlava la necessità di continuare a vivere, l’economia, già colpita e in crisi, lanciava segnali di allarme sulla necessità di garantire la “business continuity”. Il mondo della sanità era in grande affanno e qualcuno in quei momenti doveva fare la sintesi sulla base delle esigenze e delle indicazioni sanitarie, peraltro mai testate nella loro efficacia prima di allora, rappresentate dal mondo scientifico. Ho forte la percezione che se la statistica dovesse entrare nel prontuario del giudizio penale dovremmo per assurdo aspettarci una procura della Repubblica che chiede domani l’incriminazione dei dirigenti di Società Autostrade per il fatto che non hanno chiuso tutte le autostrade del paese nei giorni previsti da bollino nero: avrebbero in tal modo potuto prevenire decine, forse qualche centinaio di morti sulle strade italiane, e tante famiglie non piangerebbero i loro congiunti deceduti per un’emergenza che statisticamente era a tutti evidente.
Mi si consenta un altro piccolo sassolino, perché mi fa sorridere il signore che afferma che io non ho mai visto un paziente Covid e che non so cosa sia una epidemia. Vorrei ricordare a quel signore che io ho iniziato la mia carriera di medico navigando nel mezzo del vibrione del colera in Etiopia, ho operato all’epoca della Sars, visitato in Africa tutti i paesi affetti da Ebola anche facendomi raccontare dal mio compianto amico Gino Strada come stavano intervenendo nell’ospedale aperto da Emergency in Sierra Leone. Il mio maestro negli anni della mia esperienza di cooperante nei paesi poveri mi diceva sempre: Agostino, ogni mattina prima di uscire e andare a lavorare in queste realtà fai una doccia di umiltà. Un suggerimento che mi ha accompagnato, sempre, nel corso dei tanti anni della mia vita. La stessa umiltà con la quale ho gestito i mesi terribili della pandemia, soffrendo in perfetta solitudine accompagnato solo dalla forza e dall’intelligenza di un manipolo di uomini e donne che insieme a me dovevano ogni disgraziato giorno ascoltare gli appelli disperati del territorio e suggerire soluzioni salvifiche ben sapendo e ben conoscendo l’esercito che avevamo a disposizione per combattere un nemico potentissimo, sconosciuto, mai visto prima di allora in quelle forme e in quella potenza.
Umiltà: un termine sconosciuto a molti.