Sul Patto di stabilità Meloni ha un nemico: il suo partito europeo
La premier deve convincere i leader di mezza Europa che serve più flessibilità sui conti. Ma i suoi alleati - dagli spagnoli di Vox ai polacchi del Pis, e poi cechi e tedeschi - sono tutti teorici del rigore: c'è chi si sipira a Schauble e chi condanna l'unione fiscale. E perfino nel programma di Ecr, che pure la capa di FdI presiede, c'è la richiesta di maggiore responsabilità sui conti. Contorsionismi patriottici
Convincere i principali leader europei che di troppo rigore si muore: questo è dunque l’obiettivo che Giorgia Meloni si è posto per l’autunno, quando i negoziati sul nuovo Patto di stabilità entreranno nella fase decisiva. E tocca sperare che con Olaf Scholz, Emmanuel Macron e Ursula von der Leyen, la premier saprà essere più convincente, nelle prossime settimane, di quanto non abbia saputo esserlo, negli ultimi cinque anni, coi suoi alleati europei. O forse perfino con se stessa, se è vero che Meloni è da ormai tre anni presidente di un partito, Ecr, che, sui temi economici, sostiene tesi contrarie alle sue. Raro caso di una presidente in dissenso col partito che dirige. Situazionismo patriottico.
Basta leggere la “visione” che il gruppo dei Conservatori espone nel suo manifesto: “Ecr ritiene che è assolutamente giusto che tutti i paesi europei dimostrino responsabilità economica e fiscale. La prudenza economica a livello nazionale dovrebbe essere incoraggiata, e non penalizzata”. Una frase che Christian Lindner, l’austero ministro delle Finanze tedesco, potrebbe benissimo pronunciare in una delle sue consuete arringhe con cui condanna l’eccessiva flessibilità del nuovo Patto di stabilità.
Non è recente, tuttavia, questa bizzarra incompatibilità tra il programma meloniano e quello di Ecr. Durante la campagna per le europee del 2019, per dire, l’allora Spiztenkandidat dei conservatori, il ceco Jan Zahradil, invocava delle “procedure facilitate per l’uscita dei singoli stati membri dall’eurozona e il ritorno alle loro valute nazionali”. E’ vero: come la Meloni d’allora: solo che lui le invocava come punizione “per i paesi che non sono in grado di rispettare i vincoli del Patto di stabilità”. Se insomma l’Europa avesse preso la direzione auspicata da Fratelli d’Italia, nel 2019, oggi l’Italia governata da Meloni sarebbe stata costretta a tornare alla lira.
Ma certo, si tratta di un lustro fa. Ne è passato di tempo. Però le divergenze, tra Meloni e i suoi alleati, rimangono. A luglio la premier italiana esaltava la campagna elettorale dei suoi “amici patrioti spagnoli” di Vox, celebrava la “nostra compattezza” perché “uniti”, diceva Donna Giorgia, “potremo cambiare l’Europa”. Se non fosse che, al dunque, toccherà capire come vorrebbero cambiarla, l’Europa, per quel che riguarda le regole fiscali. Perché per Meloni, si sa, l’austerity va archiviata. E invece il suo querido amigo Santiago Abascal promette di “elaborare i presupposti per base zero, indicando come obiettivo la progressiva eliminazione del deficit e del debito pubblico”. E qui forse persino Lindner avrebbe un tentennamento. Perché l’ispiratore di Vox è semmai quel Wolfgang Schauble, inflessibile ministro delle Finanze di Angela Merkel, che proprio sullo schwarze null, l’abolizione del deficit, ha fondato il suo mito di “falco”.
E poi c’è Mateusz Morawiecki, il più solido degli alleati di Meloni. L’ultima volta che andò a trovarlo a Varsavia, era luglio, la premier parlò di “visione comune” sulla revisione del Patto di stabilità: “Per noi deve ovviamente supportare anzitutto la crescita”. E forse non sapeva, Meloni, che per lanciare la sua campagna in vista delle elezioni di ottobre, il fido Mateusz, a marzo, aveva convocato una conferenza stampa straordinaria per magnificare il taglio del deficit conseguito dal suo governo (“Significativamente saremo non oltre il 3 per cento”), con conseguenti vantaggi sul debito (“Saremo intorno al 49-50 per cento, mentre la media europea è dell’85 per cento”). Non solo. Morawiecki ha più volte ribadito, in questi anni, la sua ferma contrarietà alle politiche di omologazione fiscale. Che è poi lo stesso principio su cui puntano anche i conservatori dell’Lkr tedesco, pure loro alleati di FdI: “Rifiutiamo fermamente l’armonizzazione fiscale voluta dall’Ue come una violazione dei diritti fondamentali degli stati membri”. Ed è bizzarro, perché l’unione fiscale è da sempre uno dei grandi pilastri della retorica di Meloni: “Senza unione fiscale, l’unione monetaria resterà sempre monca, e qualsiasi politica comunitaria sul bilancio insostenibile”, diceva la capa di FdI un anno fa. Peccato che Morawiecki fosse distratto.
E insomma resta il dubbio, mentre si avvicina la trattativa finale sul Patto di stabilità: davvero si può puntare a convincere delle proprie ragioni interi governi storicamente ostili alle richieste italiane di maggiore flessibilità, quando non si è saputo convincere i propri stessi alleati, e in definitiva il partito di cui si è presidenti, sulla bontà di quelle richieste?