Per la riduzione dell'Irpef non ci sono soldi. La delega fiscale può attendere

Valerio Valentini

Giorgetti chiede una riforma "a saldo zero", per il 2024. In legge di Bilancio si cercheranno risorse per il taglio del cuneo - tra 8 e 10 miliardi - ma non ci sarà spazio per la riduzione delle aliquote. L'incognita delle coperture, il rebus delle tax expenditures e del catasto. La linea della prudenza del mef alla prova degli appetiti elettorali di Meloni e Salvini

Se ne riparla l’anno prossimo, se tutto va bene. Anche quella patriottica, insomma, sembra destinata a imboccare lo stesso binario già seguito dalle molte deleghe fiscali che negli anni passati – da quelle volute da Berlusconi in poi – l’hanno preceduta: grandi dibattiti, promesse solenni, e poi nulla più, o quasi. Certo, la stabilizzazione del taglio del cuneo: quella, almeno, in legge di Bilancio dovrebbe starci. Per Giorgia Meloni è una priorità: e dunque quei miliardi – tra gli 8 e i 10, a seconda delle simulazioni – vanno trovati. Per il resto, però, sull’architettura del fisco, nessun intervento strutturale. Neppure, e sembrava invece che ci si volesse puntare, l’accorpamento delle prime due aliquote Irpef. Vale tra i 4 e i 5 miliardi, e al momento è una cifra proibitiva per la tenuta dei conti.

Giancarlo Giorgetti d’altronde è stato chiaro nelle riunioni preliminari coi colleghi di governo: taglio del cuneo a parte, tutto ciò che riguarda la delega fiscale deve essere a saldo zero. Le maggiori spese dovute ad alcune riforme vanno coperte col maggior gettito derivante da interventi paralleli. Un incastro di entrate e uscite tutt’altro che facile. E che richiederà tempo. A Palazzo Chigi attendono infatti che le commissioni di esperti nominate dal Mef elaborino delle bozze sui singoli capitoli, per poi chiedere alla Ragioneria generale di stimarne la portata e l’impatto sui conti pubblici: di lì si procederà poi a una stima di ciò che si può fare, e con quali scadenze, e con che ordine di priorità. Procedura complessa, insomma. E del resto le premesse erano chiare:  il pomposo “Comitato tecnico per l’attuazione della riforma tributaria”, creato per decreto a inizio agosto, presieduto dal viceministro meloniano Maurizio Leo, si compone di un Coordinamento generale di sei dirigenti, una segreteria tecnica di sette funzionari, e tredici commissioni settoriali che, nel complesso, sono formate da 170 – centosettanta – esperti. Un apparato da Unione sovietica: non esattamente un indizio di risolutezza. Certo, “abbiamo ancora quattro Finanziarie da fare, e la delega fiscale è una riforma da impostare nell’arco di una legislatura”, dicono a Palazzo Chigi. Ma si fa fatica a non cedere al cinico fatalismo del renziano Luigi Marattin quando osserva che “a quanto pare la ‘più grande riforma degli ultimi 50 anni’ è destinata a diventare la più grande riforma degli ultimi 51. O meglio, di 50 + x, dove x è un numero a piacere”. Di certo ce ne sarà uno in più, in ogni caso. Perché lo stesso Leo, che pure della delega è ispiratore e regista, ha convenuto con Giorgetti che è meglio rimandare. E questa è dunque la posizione che il ministro dell’Economia esporrà lunedì al Cdm convocato per iniziare a discutere della legge di Bilancio.

C’è da capire, a quel punto, se questo invito alla cautela sarà accolto da Meloni e da due vicepremier – Antonio Tajani e Mattei Salvini – ansiosi pure loro, come del resto la capa di FdI, di ottenere dei titoli da esibire in vista della campagna elettorale per le europee. Esigenze di propaganda che ovviamente sono note anche a Via XX Settembre, dove, a quanto pare, si sono accennate anche ipotesi un poco stravaganti, tipo quella che prevedeva una riduzione parziale delle aliquote Irpef in corso d’anno, magari con l’applicazione di un coefficiente famigliare che dunque restringeva di molto la platea dei beneficiari. Ma lo stesso Leo si è detto scettico rispetto a queste impostazioni, che finirebbero col creare non poco disorientamento tra gli addetti ai lavori, col caos che ne conseguirebbe. 

Esercizio di realismo apprezzabile, dunque. Specie perché viene da chi, come Leo, nel recente passato aveva peccato di eccesso d’ottimismo, prospettando come miracolose soluzioni che, alla prova dei fatti, si sono in effetti rivelate semplicemente infattibili. Era l’aprile del 2022, quando Leo salì sul palco milanese della Conferenza programmatica di FdI, per spiegare quanto sarebbe stato facile reperire risorse necessarie a finanziare la riforma fiscale. “La prima fonte di copertura viene dal Reddito di cittadinanza, che costa 30 miliardi e che va smantellato”, disse. In realtà, nel 2023 la rimodulazione del Rdc ha garantito poco più di 700 milioni di euro: troppo poco, al momento, per giustificare le previsioni di Leo negli anni a venire.

“Ma poi ci sono le tax expenditures”, proseguì il responsabil fiscale di FdI. “Si tratta di oltre 600 misure che valgono oltre 70 miliardi di gettito, e lì è possibile effettuare una bella potatura”. E in effetti nella delega fiscale c’è un sostanzioso elenco di agevolazioni da falciare. Se non fosse, come ha osservato Banca d’Italia, che le tutele che invece il governo intende mantenere (“la cura dei figli, la proprietà della casa, la salute e l’istruzione, la previdenza complementare, il risparmio energetico e la riduzione del rischio sismico degli edifici”) risultano essere, nel complesso, “piuttosto rilevanti in termini di gettito”, per cui “la loro permanenza avrebbe la conseguenza di non ridurre significativamente l’erosione della base e di rendere più difficoltoso recuperare le risorse necessarie a coprire le minori entrate derivanti dalla riduzione dell’Irpef connessa con l’introduzione della flat tax o con altri interventi”. E dunque no, neppure qui i conti sembrerebbero tornare. 

Specie se, come pare, la delega escluderà qualsiasi reale revisione del catasto. Altra anomalia segnalata dagli uffici di Via Nazionale: “L’erosione è stata anche determinata da un processo di obsolescenza dei valori tassati”, si legge nel dossier fornito alla Camera da Banca d’Italia. “L’esempio più rilevante è il mancato aggiornamento delle rendite catastali. Su questo punto il ddl non interviene, mentre sarebbe necessario rivedere e aggiornare tali valori, che tra l’altro influiscono sulla determinazione non solo dell’Irpef, ma anche di altre imposte”. E qui, obiettivamente, c’è poco da sperare che le sollecitazioni di Palazzo Koch vengano raccolte, visto che proprio sulla revisione del catasto il centrodestra montò le barricate contro Mario Draghi, l’anno scorso. Assecondando peraltro la crociata di quel Giorgio Spaziani Testa, presidente di Confedilizia, che non a caso è stato inserito nella folta commissione di esperti per la delega fiscale voluta dal Mef.

C’è infine l’ultimo obiettivo indicato da Leo nell’aprile del 2022, su cui confidare. “Un intervento che, tramite l’inversione dell’onere della prova, consenta al fisco di ottenere che i giganti del web, da Elon Musk in giù, paghino le tasse in Italia”. E qui tocca sperare, allora, che nel ricevere il capo di Tesla a Palazzo Chigi, Meloni gli abbia comunicato la cifra che l’Agenzia delle entrate pretende di riscuotere dalle sue società. Oltre, s’intende, a concordare il luogo e la data della scazzottata con Mark Zuckerberg.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.