l'editoriale del direttore
I quattro guai di Meloni: famiglia, immigrazione, referendum, economia
Chiedere di non entrare nella modalità dello scarica barile, per affrontare la fase due, è il minimo che si possa domandare a un governo con pochi avversari e poche idee (confuse)
Meloni is on fire, ma non nel senso che potreste pensare voi. Fino a qualche settimana fa, l’atteggiamento utilizzato dai principali osservatori internazionali per ragionare intorno al futuro del governo Meloni oscillava tra due diverse tentazioni. Tentazione numero uno: chiedersi quanto potesse essere pericoloso questo governo. Tentazione numero due: chiedersi quanto potesse durare questo esecutivo. A dieci mesi tondi dall’inizio del regno meloniano, la risposta a queste due domande è sconfortante per i detrattori del centrodestra. La pericolosità di un governo, solitamente, la si misura attraverso il gradimento dei mercati e l’indice che misura la compatibilità di un governo con la realtà (lo spread: il differenziale di rendimento fra i titoli di stato a dieci anni di un paese rispetto a quelli tedeschi) in questi mesi non ha registrato oscillazioni negative. Un anno fa, in campagna elettorale, lo spread segnava quota 234. Oggi lo spread segna quota 165. Lo stesso si può dire sulla seconda domanda. A chi sosteneva che questo governo avrebbe avuto difficoltà a governare, a tenere compatta la maggioranza, a gestire i principali dossier del paese occorre far notare che dieci mesi dopo la nascita dell’esecutivo le uniche forze politiche incapaci di incontrarsi anche solo per un caffè sono quelle che si trovano all’opposizione non quelle che si trovano al governo. Dunque, no: in dieci mesi, il governo non ha mostrato in modo manifesto la sua pericolosità. E dunque no: in dieci mesi, il governo non ha mostrato in modo evidente di avere di fronte a sé ostacoli tali da rendere realmente difficoltosa la sua azione. Dieci mesi dopo, però, vi sono altre domande importanti a cui occorre rispondere ragionando sul futuro della maggioranza meloniana. E tra queste, la principale è una: cosa può andare storto a una maggioranza che, nonostante qualche guaio, naviga con il vento in poppa e l’acqua nell’orto? Per provare a ragionare sul tema – e per provare anche a capire se hanno ragione o no ad avere preoccupazioni sulla traiettoria dell’esecutivo tre testate internazionali che negli ultimi cinque giorni hanno espresso critiche nei confronti del governo Meloni: Economist, Financial Times, Politico – potremmo utilizzare un acronimo formato da quattro lettere: fire. E dentro queste quattro lettere sono contenute le parole giuste per individuare quanto siano profonde le linee di frattura presenti nell’esecutivo: famiglia, immigrazione, referendum, economia.
Non ci sono grandi dubbi sul fatto che il governo Meloni durerà a lungo, ma iniziano a esserci pochi dubbi sul fatto che più si andrà avanti e più il disordine meloniano viaggerà lungo questi quattro vettori. La famiglia per le ragioni che spiegavamo ieri: se la tribù famigliare diventa il vero core business della tua classe dirigente (sorella a capo del partito, cognato a capo della delegazione del governo, first gentleman unchained sulle reti Mediaset) non ci si può stupire se la tua tribù diventa per i tuoi avversari il bersaglio perfetto per provare a metterti in difficoltà. L’immigrazione per ragioni di equilibri politici: più Meloni seguirà la via della normalizzazione europea, collaborando con le ong, approvando poderosi decreti flussi, bocciando la linea degli amici di Orbán, promettendo di modificare la Bossi-Fini ed evitando di fare allarmismo eccessivo rispetto al numero degli sbarchi, più la Lega sarà tentata dal cavalcare una narrazione opposta facendo propria l’agenda Vannacci. Il referendum per le ragioni che abbiamo anticipato sul Foglio con Salvatore Merlo: Meloni è decisa ad abbandonare per strada la riforma della giustizia, rinviandola nel tempo, e ha scelto di puntare forte, come elemento prioritario della sua azione di governo, sul tema delle riforme istituzionali, virando dal modello presidenziale promesso in campagna elettorale al premierato modello sindaco d’Italia, anche a costo di doversi confrontare con gli elettori in un referendum costituzionale. E qui il tema è grosso, ovviamente, e se davvero Meloni dovesse seguire questa strada il rischio che correrebbe sarebbe simmetrico a quello corso nel 2016 da Matteo Renzi, che riuscì a trasformare un referendum su una riforma in un referendum sulla persona (e quando il referendum non è più sull’oggetto di una riforma ma sul soggetto che la propone per il soggetto non è mai una buona notizia). L’economia, quarto punto del nostro acronimo, è però il vero terreno su cui Meloni si gioca buona parte della sua credibilità. Ieri il Financial Times ha dedicato un lungo approfondimento ad alcuni timori captati in giro per l’Europa relativi al destino del Pnrr. E per quanto finora in verità le cose anche sul Pnrr siano andate meno peggio del previsto – nel 2023 l’Italia ha ottime possibilità di non perdere un solo euro dei finanziamenti europei – Meloni sa che il futuro del governo è appeso: (a) alla capacità di saper spendere bene i soldi ricevuti dall’Europa evitando di utilizzare la flessibilità europea per finanziare spesa corrente al posto di investimenti, (b) alla capacità di sapere generare crescita robusta come fatto dal suo predecessore a Palazzo Chigi, (c) alla capacità di saper creare un ecosistema in grado di generare lavoro come fatto dal precedente governo, (d) alla capacità di non terrorizzare gli investitori (come successo con lo scellerato provvedimento sugli extraprofitti), (e) alla capacità di saper attrarre investimenti e capitali coraggiosi e non di metterli in fuga come successo negli ultimi mesi sia con Intel (a nessuno al governo sembra interessare il fatto che l’Italia è sul punto di perdere un investimento da 4,5 miliardi) sia con il gigante taiwanese dei microchip Tsmc (a nessuno al governo sembra interessare il fatto che l’Italia si è fatta strappare dalla Germania un investimento miliardario che Tsmc avrebbe potuto fare nel nostro paese). La stabilità c’è, la visione no, il disordine avanza e la confusione regna. Il governo finora si è contraddistinto per la sua capacità di non spaventare e il gioco ha più o meno funzionato. La nuova fase del governo sarà quella più difficile e coinciderà con il rassicurare mostrando non cosa non vuole fare ma cosa vuole fare. Chiedere a questo governo di avere una visione è forse troppo. Chiedere di non entrare in modalità scaricabarile è però il minimo che si possa chiedere a una maggioranza che ha la fortuna non solo di essere stabile e forte ma di non avere nessun avversario all’orizzonte degno di questo nome. Meloni is on fire.