L'analisi
È immigrazione, si fa troppo presto a chiamarla emergenza
Davvero 100 mila arrivi spaventano un paese di 60 milioni di abitanti? Il dopo-primavere arabe e i compiti a casa non fatti dall’Italia
Nel linguaggio dei protettori civili il termine emergenza sta a significare una condizione ben precisa: qualcosa che minaccia la vita, la salute, le proprietà o l’ambiente: è una situazione che ha la possibilità di evolvere verso scenari peggiori, una condizione che in termini manageriali prevede decisioni e azioni rapide con adeguate misure straordinarie.
Due articoli pubblicati sul Secolo XIX e sulla Stampa del 28 agosto mi hanno particolarmente colpito. Il primo di Matteo Zuppi, cardinale di Bologna, che analizza i processi migratori come fenomeni strutturali e non come condizioni di emergenza. Il secondo è quello del presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, il quale afferma che 100.000 migranti in un paese di 60 milioni di abitanti non dovrebbero rappresentare un’emergenza.
Non sono un “vero” esperto di politiche migratorie, mi sono però occupato di migranti nelle molte situazioni dove i movimenti improvvisi di persone erano legati a conflitti o grandi disastri naturali e dove sono stato coinvolto come operatore umanitario. Non entro pertanto nel merito di un dibattito difficile e complesso che riguarda la gestione dei migranti nel nostro paese e mi limito a commentare il termine emergenza, che mi sembra assai abusato da molti politici e giornalisti nel dibattito attuale.
Giustamente il cardinale Zuppi sottolinea che i processi migratori “sono parte della storia recente dell’Italia da lungo tempo e sarà così per anni” e, pertanto, dovrebbero essere considerati fenomeni che potremmo definire quasi naturali. Ogni specie si muove da un’area all’altra del pianeta alla ricerca di condizioni di sopravvivenza più adeguate, questo vale per il mondo animale e ovviamente anche per l’uomo. E questo è ancor più vero per l’uomo nell’èra della comunicazione globale, laddove le condizioni di vita di alcuni paesi “privilegiati” diventano il modello cui aspirare per uomini e donne che vivono in realtà molto più povere.
A proposito di gestione dell’“emergenza migranti” vale la pena ricordare che nel 2008 l’allora presidente Berlusconi firmò un accordo con il colonnello Gheddafi che prevedeva il controllo da parte del governo libico del flusso dei migranti verso l’Italia. A seguito di quell’accordo, ottimo dal punto di vista tecnico e dei risultati, e sino al conflitto del 2011 nessun migrante partiva illegalmente dalla Libia, e i flussi dalla Tunisia rappresentavano quei movimenti fisiologici legati prevalentemente alla stagionalità dei lavori nel nostro paese.
Non entro nel merito del costo o della valutazione “etica” dell’accordo Berlusconi-Gheddafi; l’effetto fu comunque indiscutibile e ne abbiamo avuto conferma solo all’indomani del conflitto voluto in particolare dalla Francia e dagli Stati Uniti per eliminare il colonnello libico. Che quel conflitto avrebbe aperto i flussi migratori soprattutto verso l’Italia era più che scontato. Possiamo quindi dire che le nuove rotte verso l’Italia, il caos dei centri di accoglienza o meglio dire delle carceri libiche attuali, sono stati una crisi ampiamente annunciata e prevista; difficile valutarla quindi al pari di una condizione di emergenza, quando di quel fenomeno avevamo tutti gli elementi conoscitivi in tempi non sospetti.
Sono passati già dodici anni dal periodo dell’illusione delle “primavere arabe” che ha visto sviluppare la crisi libica, quella egiziana e poi quella siriana, cui dobbiamo aggiungere l’Afghanistan e numerosi altri paesi, soprattutto africani, oggetto di crisi dimenticate. Crisi che hanno visto milioni di profughi fuggire dai paesi in guerra. Molti di questi sono arrivati in Europa. Dodici anni sono tanti, certamente il tempo utile per trasformare un’emergenza in un processo di gestione strutturato e governato con criteri diversi da quelli emergenziali. Ho tutta l’impressione che, quantomeno nel nostro paese, non abbiamo fatto bene i compiti a casa.
Il punto del presidente Occhiuto sui numeri assoluti è altrettanto significativo. Anche in questo caso non entro nell’analisi squisitamente politica di Occhiuto sulla difficoltà storica dell’Italia nel governo dei processi migratori e nell’incapacità di costruire percorsi di integrazione e gestione delle risorse umane. Risorse che se ben governate aiuterebbero certamente il nostro paese a superare quei limiti evidenti legati alla denatalità e all’invecchiamento della popolazione, alla cronica mancanza di manodopera che l’industria, il commercio, l’agricoltura quotidianamente lamentano.
Sostenere che 100.000 persone siano una grave emergenza per l’Italia, paese di 60 milioni di abitanti, la settima potenza economica del pianeta è decisamente difficile da comprendere. Come altrettanto difficile è sentire capi di stato di paesi membri dell’Unione ribadire che un milione di migranti che nel 2022 sono arrivati in Europa rappresentano una minaccia alla nostra sopravvivenza! Sommando i 27 stati membri la popolazione europea ammonta a quasi mezzo miliardo di abitanti, la somma delle nostre economie rappresenta una delle prime potenze economiche del pianeta, e potremmo essere (ma non siamo) al vertice delle potenze militari e geostrategiche se raggiungessimo effettivamente il livello di “Unione” cui aspiravano i padri fondatori.
Un milione su 500 milioni significa i decimali di un’unità, lo zero virgola… e se lo zero virgola può determinare la crisi di stati membri e magari la caduta dell’Unione significa che probabilmente questa Unione non ha fondamenta ma si regge su pilastri di argilla.
Un’ultima considerazione: gli articoli 13 e 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani sottoscritta anche dall’Italia il 10 dicembre 1948 a Parigi recita agli articoli 13 e 14: ogni individuo ha il diritto di lasciare qualsiasi paese e di ritornare nel proprio paese. Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni. Non ho mai visto né sentito nell’esasperante dibattito sul tema che da anni ci affligge l’ipotesi, peraltro più che giustificabile e comprensibile, di rivedere la Dichiarazione universale; emendarla, correggere questi due come altri articoli, rendendo la dichiarazione originale più restrittiva e magari più “adeguata” ai tempi.
Allo stato attuale quindi il dibattito pare essere in aperta violazione di una convenzione che anche il nostro paese ha firmato; qualcuno dovrebbe avere la forza e il coraggio politico di chiedere al Palazzo di Vetro un dibattito sul tema; mi stupisco che questo non sia ancora avvenuto.