Ora Meloni e Giorgetti scoprono le virtù dell'austerity, ma sperando che Lega e FdI non se ne accorgano
L'asse ritrovato tra premier e ministro dell'Economia dopo la zuffa sulle nomine e sulla Guardia di finanza. L'idea di concedere al Parlamento tre letture per l'approvazione della legge di Bilancio, ma senza margini di spesa. La sfida rischiosa alla Germania sul nuovo Patto di stabilità
Non potendo dare loro soldi, proveranno quantomeno a concedere del tempo. E, con quello, la dignità che il ruolo di parlamentari esige. Anche di questo oggi Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti parleranno a Palazzo Chigi, insieme ai vicepremier e l’altro notabilato ristretto della Fiamma: delineare un iter più disteso della legge di Bilancio, con ben tre letture. Tornando insomma alle prassi che un tempo erano scontate, e che in epoca recente sono state progressivamente dismesse, fino a trasformare il più importante dei provvedimenti in un pacchetto che almeno una delle due Camere doveva approvare senza fare domande, e farlo quasi sempre con le bottiglie del veglione già in fresco, in fretta e furia. E sperano così, la premier e il ministro dell’Economia, di rendere meno gravosa l’austerità che la Finanziaria impone.
E magari questo effetto illusionistico – “Vogliamo segnare una discontinuità con la prassi per cui al Parlamento la Finanziaria veniva imposta a scatola chiusa”, dicono a Palazzo Chigi – Meloni e Giorgetti vorrebbero funzionasse non solo con deputati e senatori, a cui rischiano di dover lasciare, per le concessioni d’ordinanza alla sete degli onorevoli, per quelle che uno spregevole gergo di Transatlantico definisce brevemente “marchette”, meno del già poco che fu offerto lo scorso anno, e cioè 420 milioni appena, poi ridottisi a 330, una miseria. No, Meloni e Giorgetti sperano che a non notare la natura rigorista della manovra siano pure i ministri – che entro il 15 settembre sono chiamati a portare nella dote del Mef almeno 500 milioni di spese ritenute non necessarie, e insomma a tagliare – e i vicepremier, Salvini e Tajani, ansiosi di trovare un senso alle loro ambizioni elettorali, e il senso in questi casi, si sa, va trovato nella spesa.
Ma soprattutto Meloni spera che a non accorgersi della cosa siano i suoi elettori. Quelli su cui lei, quando a dover far quadrare i conti erano altri, nel marzo 2020, riteneva necessario far piovere soldi (“Presidente Conte, cosa aspetta? Questa è gente che non può dare da mangiare ai propri figli: metta subito mille euro sui loro conti correnti”); quelli a cui lei prometteva tagli di accise a piene mani. Perfino quell’obbrobrio che giustamente fa venire ora il mal di pancia a Giorgetti, che agita lo sdegno della premier, il Superbonus della vergogna, veniva difeso senza indugi quando a volerlo ridimensionare era Mario Draghi, e allora si mandavano attuali ministri e sottosegretari a protestare contro “l’improvvida pensata di Draghi e del suo ministro Franco”. Di più: “Se oggi il presidente del Consiglio di vanta di un 6 per cento di aumento del pil, lo deve al Superbonus: proprio per questo non capiamo il continuo odio verso il tema degli immobili”. Così parlava, come insomma oggi parla Giuseppe Conte, Nicola Calandrini. Che tra poche settimane dovrà, da presidente della commissione Bilancio del Senato, difendere la linea rigorista del Mef contro il Superbonus, e che però nel 2021 del Superbonus invocava proroga e rifinanziamento con emendamenti a sua prima firma.
Insomma, la grande operazione di trasformismo, per Meloni, sarà quella di riuscire ad affermare che l’austerità è di destra, o quantomeno patriottica. E con “austerità” intendendo, in effetti, niente di più che la distanza tra le insostenibili promesse elettorali e la necessità di non mandare in aria il bilancio. E forse è allora anche per questo che perfino il più impensabile dei magisteri venga recuperato dai vertici del governo sovranista: e cioè quel Mario Monti con cui la premier, quando può, scambia messaggi cordiali e ossequiosi (è successo anche di recente, nell’Aula del Senato), e a cui lo stesso Giorgetti non esita a chiedere consigli e a riconoscere meriti. E insomma ha un che di bizzarro e di provvidenziale insieme che proprio sotto l’ombra del loden del più ingiuriato dei premier nella retorica antieuropea si vada ricomponendo quell’intesa obbligata, nel segno della prudenza, tra la premier e il suo ministro dell’Economia, quell’intesa che era uscita assai logorata dalla trattative sulle nomine di maggio, quando la baruffa sul rinnovo dei vertici della Guardia di finanza registrò tensioni notevoli e reciproco scambio di cattiverie.
Forza della necessità. Sarà quella che vedrà marciare compatti Meloni e Giorgetti di qui al 27 settembre, quando la Nadef dovrà essere licenziata. Non prima però che, a metà mese, si definisca l’accordo europeo sul nuovo Patto di stabilità: appuntamento a cui al Mef si continua a guardare con la fumosa speranza di chi auspica un fallimento del negoziato, nella convinzione che da lì possa discendere, chissà come, l’ottenimento di qualche margine di spesa in più. Anche per questo tra Vi XX Settembre e Palazzo Chigi è stata accolta con un certo ottimismo la notizia sui richiami della Corte di conti tedesca sui fondi speciali allestiti da Olaf Scholz per finanziare spese straordinarie aggirando i vincoli di bilancio. “Questo dimostra che anche per Berlino le regole del Patto di stabilità sono anacronistiche, e dunque rafforza la nostra posizione”, spiegano al Mef. Che però questa diatriba contabile possa valere a modificare i rapporti di forza a Bruxelles, non è affatto detto. E non solo perché per dirimere la faccenda tra la cancelleria e la Corte dei conti bisognerà attendere una sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe attesa entro dicembre. Ma pure perché, quandanche Scholz dovesse includere nel bilancio statale tutte le spese straordinarie (da quelle per il riarmo a quelle per l’emergenza energetica), il deficit tedesco si attesterebbe al 2,4 per cento. Dunque al di sotto dei limiti canonici tenuti in considerazione dalla Commissione.