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l'intervento

Avviso alla destra e alla sinistra: non si fa politica con il codice penale

Enrico Borghi

Se i conservatori sono vittime di una trappola, anche tra i progressisti sulla giustizia c'è molta confusione. Con il rischio di non riuscire a liberare questo paese dal giustizialismo diffusosi con Mani pulite. Ci scrive il capogruppo al Senato del Terzo polo

In fondo, a pensarci bene, siamo ancora al 30 aprile 1993. Chi ha un po’ di memoria, in questo paese, sa bene a cosa corrisponda quella data. La prima pagina pubblica di gogna mediatica, di volontà all’autodafè collettivo, di sintesi “rossobruna” sotto l’egida di un manto giacobino di pretesa purificazione populista. Le monetine a Craxi, trent’anni fa, con relativa criminalizzazione della classe politica e evocazione del tintinnar di manette, trovò sul campo una sintesi tra coloro che avevano da poco partecipato alla manifestazione del Pds in piazza Navona e i giovani del Movimento sociale italiano forniti di monete da Teodoro Bontempo.
E dopo trent’anni, i figli, i nipoti e in qualche caso anche i protagonisti di quella stagione, con il corroborante ausilio dei rivoluzionari con pochette e amicizie a Pechino, riproducono nella vita politica italiana quella stessa idea di populismo giudiziario, ad ogni occasione di cronaca.

 

E’ di plastico esempio, in tal senso, l’elenco fatto nei giorni scorsi su questo giornale dal direttore. Il riflesso pavloviano a destra di ricorrere al codice penale come unico strumento di attuazione della politica è sempre più marcato. Dai rave agli incendi boschivi, dall’ omicidio nautico ai muri imbrattati, per giungere ormai a quel pezzo di antologia della premier sulla rincorsa agli scafisti in tutto il “globo terracqueo”, è tutta una costante rievocazione della figura icastica di Giorgio Bracardi: “In galera!”. E giù decreti a getto continuo per l’istituzione di nuove figure penali, di inasprimento delle pene, di appalto alla magistratura di funzioni che in un paese normale dovrebbero essere affrontate da altri livelli istituzionali. Con il risultato paradossale che la destra italiana si ritrova, sulla giustizia, nella “trappola di Reagan”. Come si ricorderà, il liberista Ronald Wilson Reagan – quarantesimo presidente degli Stati Uniti – era fautore dello stato minimo, della contrazione degli spazi della politica, della diminuzione della spesa pubblica. Ciò non gli impedì di dilatare il debito pubblico e di aumentare significativamente la spesa federale, dentro un ossimoro significativo. La destra italiana è dentro lo stesso schema: attacca a parole la magistratura per invasione di campo ed esondazione di spazi, e poi gli affida funzioni maieutiche e salvifiche che inevitabilmente faranno pensare a qualche pubblico ministero di essere non l’attuatore di una legge, ma il vendicatore del bene contro il male.

 

Ma se s’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo. E quindi cosa fa la sinistra, capitanata dalla Cgil di un Landini sempre più proteso nella sua nuova funzione di federatore del “campo largo” e di maitre-à-penser di un Nazareno esausto in tema di idee davanti al dramma di Brandizzo? Anziché porre il tema di una cultura profonda della sicurezza, legando il tema degli investimenti e della formazione al Pnrr e al potenziamento degli ispettorati del lavoro e degli organici della magistratura preposti al sanzionamento penale, ci si lancia nell’invenzione di un altro reato, l’omicidio sul lavoro, sostenendo che “il riconoscimento di una fattispecie sanzionatoria diventa un incentivo a considerare la vita dei lavoratori un bene da difendere prima di tutto e con ogni mezzo”. L’etica e la formazione affidata al codice penale e alla Procura della Repubblica, insomma. E siccome non bisogna farsi mancare nulla, ecco che i Cinque stelle si alzano subito in Parlamento a invocare una fantomatica “Procura nazionale sicurezza e ambiente”, alla quale probabilmente negli intenti dei presentatori affidare il potere della legislazione emergenziale e straordinaria dell’Antimafia.

 

“Popolo, ricordati che se nella Repubblica la giustizia non regna con impero assoluto, la libertà non è che un vano nome”: l’autore di questa fase, Maximilien de Robespierre, guarderebbe compiaciuto alle mosse dei suoi epigoni italiani odierni. Dobbiamo spiegare dove portò quella concezione, o basta qualche libro di storia che ci permetta anche di disincagliare questo paese dalla sua deriva trentennale?

Enrico Borghi
capogruppo al Senato di Azione-Italia viva-Renew Europe

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