Giorgia Meloni in scooter nel 2019 (foto Roberto Monaldo / LaPresse) 

l'editoriale del direttore

Perché è ora di superare la fase del “Meloni, pensavo peggio”

Claudio Cerasa

Finora, la premier ha mostrato il volto rassicurante attraverso i “non farò”. La fase due impone un cambio di passo e una visione diversa dal vittimismo. È finita la stagione nannimorettiana del “governo Spinaceto”

Pregiudizi, giudizi e futuro. Problema: dove si va? A quasi un anno dalle ultime elezioni politiche è forse arrivato il momento di osservare il governo Meloni con un occhio diverso rispetto al passato. Fino a oggi, la traiettoria dell’esecutivo ha colpito in positivo anche i non sostenitori del modello Meloni per una ragione semplice. Si temeva che il primo governo sovranista della storia d’Italia, un governo che nel passato ha giocato sporco con la retorica anti vaccinista, con la retorica anti europeista, con la retorica xenofoba, con la retorica putiniana, potesse essere coerente con la sua storia. E invece, per fortuna, come abbiamo scritto spesso su queste pagine, il governo Meloni ha offerto numerose occasioni per deludere i suoi follower. Il giudizio sul primo anno di Italia sovranista è stato dunque molto condizionato dalla divaricazione evidente tra ciò che poteva essere (il disastro) e ciò che è stato (il non disastro). E i diversi pregiudizi coltivati nel passato sul centrodestra meloniano (compresi i nostri) sono stati mitigati da una serie di giudizi laici, che si sono formati nel corso del tempo attraverso l’osservazione attenta della traiettoria del governo. E la sintesi dei primi dieci mesi di governo in fondo è semplice da formulare: un governo che poteva essere pericoloso semplicemente non lo è stato. E per di più, su alcune partite lasciate aperte dal governo precedente Meloni non ha sfigurato (Superbonus da riformare, Reddito di cittadinanza da rivedere, vendita della rete di Tim da complementare, cessione di Ita a Lufthansa da ultimare).

  

La fase morettiana del “Meloni, pensavo peggio” (frase mutuata dalla storica scena di Nanni Moratti a passeggio, in “Caro diario”, con la sua mitica Vespa a due passi dal quartiere romano in cui abita oggi Giorgia Meloni: Spinaceto, pensavo peggio) è stata importante per due ragioni. Da un lato ha permesso di poter misurare il numero di fesserie per fortuna irrealizzabili promesse nel passato da Meloni & Co. (ah, il nazionalismo). Dall’altro lato ha permesso di misurare la capacità dell’opposizione di essere al passo con i tempi cercando una strategia per suggerire al paese un’alternativa all’attuale governo senza combattere un nemico che non c’è (aiuto, il fascismo). Dieci mesi dopo però, e dodici mesi dopo le ultime elezioni (22 settembre 2022), il senso di sollievo derivato dal mancato arrivo di un Vannacci a Palazzo Chigi rischia però di creare un elemento distorsivo e depressivo nella valutazione sia della premier sia del futuro dell’Italia.

     
E rischia, per capirci, di far ruotare ogni valutazione sull’operato di Meloni all’interno di una cornice pericolosa: accontentiamoci di quello che abbiamo oggi perché, visto il risultato del 22 settembre, le cose potevano finire semplicemente a “schifìo”. Fino a oggi, la forza di Meloni è stata insomma quella di mostrare il suo volto rassicurante attraverso la declinazione della politica dei non (non sarò come Salvini, non sarò come Le Pen, non sarò come Orbán, non sarò come Trump, non sarò come Truss). Un anno dopo il suo arrivo a Palazzo Chigi, però, la sfida di Meloni è ora più complessa: provare a declinare la politica del “sarò” senza mettere a repentaglio la fragile narrazione del “non sarò”.

   

Problema: come si fa? Il grande limite della fase due di Meloni sembra essere proprio questo. Avere la consapevolezza di  essere un governo perfetto per occupare il potere gestendo gli affari correnti e non adatto invece a occupare il potere portando avanti politiche identitarie. E la ragione per cui negli ultimi giorni il governo Meloni sembra essersi particolarmente appassionato alla politica dell’alibi potrebbe essere legato proprio alla difficoltà di poter offrire, nel concreto, una qualche visione del futuro che sia compatibile con la propria identità, in un momento che inizia a essere complicato per la maggioranza: margini ristretti sull’economia, crescita in leggero calo, immigrazione in aumento, fantasie di ribaltoni europei che faticano a prendere forma.

 

Quel che manca dunque oggi a Meloni non è, come chiede l’opposizione, un bollino in più per poter dimostrare di essere “davvero” antifascista. Quel che manca, invece – ed è un dramma che l’opposizione scelga di combattere la maggioranza dal pianeta Marte e non dal pianeta Terra (suggeriamo a Corrado Guzzanti un bis del suo “Fascisti su Marte”, dedicato però questa volta agli antifascisti su Marte) – è un governo capace di sfruttare i propri numeri, la propria maggioranza e la propria stabilità non per vivacchiare o costruire marchette ma per mettere la propria forza al servizio della crescita. L’ossessione per la crescita, per gli investimenti, per l’attrazione di capitali, per la conquista di nuovi capitalisti dovrebbe essere il faro per una destra decisa a cambiare il destino per l’Italia. Ma la capacità di coltivare questa ossessione passa ancora una volta dalla rimodulazione delle proprie promesse.

   

Si può essere sensibili alla crescita se si sceglie di dedicare i pochi spiccioli che si hanno in manovra alle pensioni? Si può essere sensibili alla crescita se si sceglie di non considerare la messa a terra dei progetti del Pnrr come la priorità assoluta del governo? Si può essere sensibili alla crescita se le multinazionali, via Adolfo Urso detto Urss, vengono invitate a stare lontane dall’Italia? Si può essere sensibili alla crescita se si considera l’Europa solo come un rubinetto da cui far defluire soldi? Si può essere sensibili alla crescita se l’impegno a rispettare l’attività d’impresa è tanto forte nelle parole quanto evanescente nei fatti? Il governo, ogni giorno, tenta un modo per far sì che la sue performance siano valutate sui temi legati all’agenda della fuffa e non su quelli legati all’agenda del futuro ed è ovvio che è più facile discutere di Vannacci che discutere di efficienza di un paese ed è ovvio che è più facile dire che le difficoltà dell’Italia siano attribuibili al Pd di Paolo Gentiloni e non all’incapacità di chi governa di rendere più competitivo il nostro paese. Ma quando l’Italia, parlando di Meloni, inizierà a discutere dei problemi reali e non di quelli percepiti, non delle bolle, avrà di fronte a sé uno scenario preoccupante: la prova del “non sarò” è andata bene, quella del “sarò” non altrettanto. Il dramma del melonismo in fondo è tutto qui. Pregiudizi, giudizi e futuro. Problema: ma dove diavolo si va?
 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.