Von der Leyen traccia il sentiero obbligato per Meloni. Che però deve difendersi dall'assedio di Salvini

Valerio Valentini

Lo spettro di Draghi. La necessità delle alleanze con Socialisti e Macron. Gli elogi alla Bce. Ursula pronuncia un discorso cauto, attenta a non indispettire nessuno in vista di una sua probabile rielezione. Ma per la premier italiana la prospettiva inevitabile è quella di rimangiarsi quasi tutte le promesse europee

Tiepida, forse. Reticente, pure, almeno in parte. E però né così tiepida, né così reticente per evitare che le divergenze coi sovranisti emergessero chiaramente. E’ bastato, ad esempio, che Ursula von der Leyen facesse un vago accenno sullo stato di diritto (talmente tiepido che i macroniani di Renew lo hanno criticato) perché il polacco Ryszard Legutko, il capogruppo di Ecr, insomma il portavoce del melonismo nel Parlamento europeo, accusasse la presidente della Commissione di voler “rovesciare i governi europei non graditi, come ha provato a fare con l’Italia”, e la paragonasse nientemeno che a Lukashenka, il dittatore bielorusso.

E si dirà che i polacchi sono in campagna elettorale, d’accordo, o che forse ancora devono registrare i cambi di prospettive di Giorgia Meloni, che da mesi ormai prova a sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda di Ursula. Ma il fatto è che, pur in un discorso, quello sullo stato dell’Unione, meno altisonante di altre volte, von der Leyen non ha potuto, o voluto, fare a meno di evidenziare le distanze tra chi si riconosce nell’europeismo e chi no. Quando ha elogiato “Christine Lagarde e la Bce per il duro lavoro che stanno facendo per tenere l’inflazione sotto controllo”, l’attrito con gli attacchi sguaiati indirizzati dal governo italiano a Francoforte, negli ultimi mesi, s’è sentito fin nell’Aula di Strasburgo. 

E pure Mario Draghi, ovviamente. Che valga davvero a segnare l’inizio di una nuova stagione di reale competitività globale europea, quell’incarico che von der Leyen ha assegnato all’ex premier, che il report che il banchiere di Città della Pieve redigerà non faccia la stessa non proprio memorabile fine del dossier analogo che nel 2009 José Manuel Barroso affidò a Mario Monti, è tutto da stabilire. Ma che il solo evocare il nome di Draghi suoni come un campanello d’allarme a Palazzo Chigi, è chiaro. Un’ombra che s’allunga sulle ambizioni e le velleità da statista di Meloni, la quale infatti fa buon viso a cattivo gioco,  ma con l’aria  di chi digrigna i denti: “Draghi è uno degli italiani più autorevoli che abbiamo – dice la premier – e presumo che possa avere un occhio di riguardo per la nostra nazione”. Insomma, mica come Paolo Gentiloni: “Da lui un approccio più critico che collaborativo”. Solo che nell’ansia di illuminare la differenza tra Draghi e Gentiloni, la capa di FdI finisce così inevitabilmente  per rimarcare più che altro la distanza tra Draghi e Meloni.

Specie in una Bruxelles dove, al momento, regna lo stallo. E forse è questa la notizia peggiore, per la premier. Von der Leyen è rimasta molto accorta: l’apertura di un’indagine sulla concorrenza sleale cinese, che fa contento Macron e piace un po’ meno a Berlino, se è vero che Volkswagen rischierebbe d’essere tra le prime aziende a incappare nei dazi; ma anche l’omissione per certi versi clamorosa sul nuovo Patto di stabilità, che sembra invece motivata dalla logica di non indispettire la Germania. Il Green deal esce ridimensionato assai nella sua componente più ideale, quasi a ribadire che l’epoca Timmermans è stata archiviata, con gran scorno dei Verdi; ma il mantenimento degli obiettivi strategici legati alla riduzione delle emissioni serve a garantirsi comunque l’apprezzamento dei Socialisti. Un cerchiobottismo, e forse perfino una mancanza di slancio, in cui è facile scorgere  la prudenza esasperata di chi non vuole scontentare nessuno per blindare la sua rielezione.

Di fatto, l’indicazione di una continuità obbligata. Negli obiettivi e pure nei metodi. Nessuno sconvolgimento degli equilibri auspicato né propiziato: ma anzi, una volontà di ricalcare il perimetro dell’attuale maggioranza come quello imprescindibile per dare seguito alle battaglie intraprese. Pure sull’allargamento all’Ucraina, oltre che a Moldavia e Serbia, c’è stato un implicito, per quanto non accorato, invito alla modifica dei trattati per superare le logiche cervellotiche dell’unanimità e dei veti. Tutto ciò che al blocco di Visegrád, e a Meloni, non piace sentirsi dire. 

E pure a voler sottolineare l’attenzione di von der Leyen nel corroborare tutte le istanze più sentite dal suo Ppe (sull’immigrazione, ma anche sulle imprese e l’agricoltura), va detto che nel farlo Ursula ribadisce un posizionamento che anche gli altri vertici dei Popolari, da Manfred Weber a Roberta Metsola, hanno ribadito nel corso di queste settimane: e cioè che per ora la tenuta dell’intesa tra Ppe, Socialisti e Renew è  inaggirabile per costruire la prossima maggioranza a Bruxelles. Ed è in fondo questa, per quanto banale, la verità con cui Meloni deve scendere a patti. E farlo senza rendere evidente l’ennesima abiura, forse la più clamorosa. E allora è per questo che Matteo Salvini, che ha capito il gioco, subito rilancia. “L’alternativa all’accordo con la sinistra esiste, sempre che nessuno nel centrodestra italiano ponga veti ad altri partiti di centrodestra europei”, dice alla stampa estera. E poi, in privato: “Mi rifiuto di credere che chi proponeva patti anti inciucio a Roma voglia sottoscrivere un mega inciucio a Bruxelles”. Dispacci per Meloni. Che nel dover ammortizzare il peso di una svolta che la vedrà  inevitabilmente dover accettare un’intesa con Macron e socialisti, spererebbe forse di non avere un alleato che le ricorda ogni incoerenza. E invece. 
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.