Antiche ruggini, silenzi odierni
Il grande freddo che a sinistra accoglie la nomina europea di Draghi
L’ex premier, chiamato da von der Leyen a delineare una strategia sul futuro della competitività dell’industria Ue, ha accettato l’incarico circondato dal silenzio degli ex grandi azionisti del suo governo
Il grande freddo circonda il nome e il fatto, e si nota nell’assenza: assenza di dichiarazioni, assenza di commenti, assenza di movimenti di contorno. Fatto sta che l’ex premier Mario Draghi, chiamato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen a delineare una strategia sul futuro della competitività dell’industria Ue, ha accettato l’incarico circondato dal silenzio degli ex grandi azionisti del suo governo.
Il Pd, infatti, che ai tempi di Enrico Letta, in aree non soltanto lettiane ma con qualche sommovimento di dissenso sottotraccia, si era fatto paladino di Draghi al punto da puntare anche sull’ipotesi di un Draghi-bis, si è fatto notare in queste ore più lo starsene in disparte, per dirla con Nanni Moretti. Dal Nazareno, infatti, non si sono levati al cielo particolari cori di giubilo. E se è parsa prevedibile la reazione del leader leghista Matteo Salvini, sarcasticamente silente sulla nomina dell’ex premier, combattuto dall’attuale ministro dei Trasporti fino alla caduta e alle dimissioni (“che cosa ne pensa, Salvini, della scelta di Von der Leyen?”, gli hanno chiesto; “non penso, buona fortuna”, è stata la risposta), il gelo a sinistra ha fatto ripensare, ma “a contrario”, ai giorni in cui il Nazareno si piazzava sulla scena politica come avamposto di draghismo militante.
I tempi cambiano? O forse sono state sottovalutate le avvisaglie? Andando a ritroso, in effetti, qualche punta di fastidio era emersa nel Pd nel corso del 2021, per esempio quando l’attuale capogruppo dem al Senato ed ex ministro Francesco Boccia si era reso protagonista di dichiarazioni non proprio di sostegno all’allora premier, nei giorni in cui la società McKinsey era stata contattata per una consulenza legata al Recovery (il senso delle parole di Boccia era: se è vero, è grave. Risposta: la governance resta in capo al Mef). Per non dire del dicembre del 2022, quando Boccia, in un’intervista a Repubblica, aveva fatto emergere un pensiero evidentemente latente: “Draghi resta un eccellente banchiere, ma la connessione sentimentale con il popolo è un’altra cosa”. E anche l’ex ministro Andrea Orlando aveva a un certo punto liberato impressioni tenute a lungo a bada, a proposito del peso non leggero, in fase pre-voto, di quell’agenda Draghi con cui Giuseppe Conte, dal M5s, bastonava i dem. Diceva infatti Orlando, poco dopo la caduta dell’ex premier, alla festa dell’Unità di Terni: “Agenda Draghi? Non può essere il programma del Pd, al governo stavamo con Lega e Forza Italia”.
Un anno prima, l’ex ministro Beppe Provenzano, già vicesegretario pd, aveva fatto trapelare qualche distinguo: “Stiamo con Draghi, ma c’è chi vuole una sinistra muta”. Ancora prima, davanti alle nomine di Draghi per la struttura economica del governo, Provenzano aveva espresso più di una perplessità: “Sono tutti economisti di chiaro stampo liberista e contrari all’intervento dello Stato in economia, in contrasto con l’apparente ritorno al keynesismo che sembrava ispirare il tanto citato intervento firmato dall’ex presidente Bce e futuro premier sul Financial Times nel marzo 2020”. Fatto sta che l’idea circolante in un’area ampia del Nazareno, a fine 2022 – e cioè: la sponsorship all’agenda Draghi non ha giovato nell’urna che infatti poi ha premiato le destre – è la stessa idea che ha fatto da corollario ufficioso ai dibattiti pre-congressuali, quelli culminati con la vittoria di Elly Schlein.