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Un girotondo

Come governare le migrazioni. Numeri, analisi e idee senza ideologie

Il governo si appresta a varare norme più restrittive sull’immigrazione, ma come affrontare l’incremento straordinario di sbarchi degli ultimi mesi e che cosa dovrebbero fare l’Italia e l’Europa?

Più centri di permanenza per i rimpatri con l’obiettivo di istituirne uno in ogni regione; aumento del periodo di trattenimento fino a 18 mesi; hotspot nelle zone più interessate dagli sbarchi, per velocizzare le pratiche di accesso o di rimpatrio dei migranti: sono i punti principali delle “misure straordinarie contro gli sbarchi” che saranno già oggi sul tavolo del Consiglio dei ministri. Ne ha parlato ieri la premier Giorgia Meloni in visita a Lampedusa, da sempre il nodo più critico del fenomeno immigrazione per il nostro paese, chiarendo che il governo punta più sui rimpatri che sulla redistribuzione. Con Meloni c’erano anche la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, alla quale la premier italiana ha chiesto una nuova missione navale europea, e la commissaria Ue degli Affari interni, Ilva Johansson.

Come affrontare l’incremento straordinario di sbarchi degli ultimi mesi (127 mila migranti arrivati in Italia dal primo gennaio al 15 settembre, quasi il doppio dello scorso anno), che cosa dovrebbero fare l’Italia e l’Europa, anche nei rapporti con i paesi dai quali i migranti transitano o provengono, e ancora, come uscire dalla polarizzazione respingimento-accoglienza sempre e comunque: sono i temi del nostro girotondo tra politici, ricercatori e giornalisti. 

Quello che non è stato sperimentato in Italia è l’integrazione

La prima cosa da fare per risolvere la “crisi” dei migranti è non chiamarla più “crisi”. Un fenomeno strutturale, trattato perennemente come emergenza, per definizione non può essere risolto, tanto meno con bacchette magiche fantasiose come i blocchi navali (che comporterebbero una dichiarazione di guerra) o un piatto di lenticchie (come i 250 milioni di euro alla Tunisia) per bloccare partenze che, al massimo, si spostano geograficamente. Occorre governare le migrazioni. E per governarle occorre partire dai numeri, che dicono che l’Italia è un paese di transito, non di destinazione. Nel 2022 la Germania ha fatto i conti con 243 mila richieste di asilo, la Francia 156 mila, la Spagna 117 mila, l’Austria 108 mila. Nello stesso anno in Italia sono sbarcati meno migranti: 104 mila. L’incremento ovunque avviene malgrado il rafforzamento della strategia “Europa fortezza” in corso dal 2015-16, incentrato sulla costruzione di muri, sul subappalto delle frontiere a paesi terzi e sulla creazione di centri dove rinchiudere migranti illegali e richiedenti asilo. Solo che l’ingranaggio “Europa fortezza” si inceppa al mimino granello di sabbia: un tunnel per passare sotto un muro (accade in Polonia); un leader autoritario che ti ricatta per un altro assegno (vedi Erdogan); l’impossibilità di fare rimpatri senza accordi di rimpatrio (i 2.915 mila rimpatri dell’Italia nel 2022 lo attestano). Oltre alle chimeriche “vie legali” (le nostre ambasciate rilasciano pochi visti a africani e nordafricani, perché i primi sono neri e i secondi sono musulmani), quel che non è stato sperimentato è l’integrazione. Corsi di lingua, cultura ed educazione civica, formazione e riconoscimento delle qualifiche, permesso di lavoro sono negati ai richiedenti asilo e ai migranti illegali. Che poi ti ritrovi allo sbando nelle piazze perché si sono dequalificati o diventano clandestini con foglio di via, ma non li riesci a rimpatriare. I numeri insegnano che, per quanto difficile, l’integrazione funziona. La Germania ha integrato 1,5 milioni di siriani e afgani arrivati nel 2015-16, più le centinaia di migliaia di rifugiati arrivati negli anni successivi. I paesi dell’Ue hanno integrato 3 milioni di ucraini, a cui è stata concessa la protezione temporanea (che significa scuola, permesso di lavoro e sanità). Senza dimenticare gli Stati Uniti che nella loro storia hanno integrato quasi tutta la loro popolazione, preservando tassi di crescita demografica ed economica che ne garantiscono lo status di prima potenza mondiale. L’Italia ha un fabbisogno di 833 mila ingressi nel periodo 2023-25 per rispondere alle esigenze del mercato del lavoro. (segue a pagina due)

Lo dice il governo Meloni nel decreto flussi. Pur approvando il più alto numero di permessi della storia recente (bene), ha previsto solo 452 mila ingressi legali (male). I migranti che sbarcano e non fuggono in altri paesi dell’Ue, probabilmente, non bastano a colmare il divario. Se poi il governo riuscisse a mantenere la promessa di rimpatriarli (cosa improbabile per la mancanza di accordi), torneranno nei loro paesi con più soldi da investire localmente, una nuova lingua, una formazione e un legame forte con l’Italia: un mini piano Mattei, insomma. Smettere di giocare sulla paura urlando “crisi” e iniziare a integrare è un investimento sul futuro dell’Italia.

David Carretta


 

Serve capacità di pianificazione e umiltà, il tempo degli slogan è finito

Le immagini che arrivano da Lampedusa divenuta un “non luogo”, pieno solo di disumanità, sono le immagini di un paese sconfitto, fallito, in ginocchio. Ma non si può rispondere “non eravamo pronti” all’aumento degli sbarchi con numeri destinati probabilmente a superare perfino l’anno record 2016, perché molti fattori scatenanti (la crisi politica della Tunisia, i colpi di stato e le guerre nell’Africa subsahariana, l’emergenza ambientale) erano noti. Ma soprattutto non si può affrontare l’immigrazione con un approccio ideologico evocando addirittura complotti e parificando gli sbarchi a un attacco militare. Così come non la si può considerare un’emergenza, visto che rappresenta un fenomeno legato alla storia dell’umanità, che l’Italia – paese di migranti – conosce bene. “E’ finita la pacchia”, “aiutiamoli a casa loro”, “chiudiamo i porti”: ci ricordiamo questi slogan puramente elettorali? Hanno prodotto l’insana aspettativa nell’opinione pubblica del paese che l’arrivo di un governo di destra avrebbe cancellato il problema dell’immigrazione così come in altri tempi un altro governo aveva promesso di cancellare la povertà. Finché l’immigrazione sarà una bandiera elettorale da sventolare, l’Italia non riuscirà mai a invertire la rotta rispetto a un fenomeno che si sta riversando con conseguenze devastanti in tutte le città italiane. E l’avvicinarsi delle elezioni europee non aiuta: in Europa i governi nazionalisti fanno del “no agli immigrati” una bandiera e l’Italia di Meloni, appoggiando questa linea, si è trovata poi isolata nel momento in cui maggiore dovrebbe essere il supporto di quell’Europa così disprezzata e in cui ci vorrebbe il rilancio di una iniziativa diplomatica forte e istituzionalmente molto larga. I sindaci hanno fatto presente al ministro dell’Interno Piantedosi che è indispensabile condividere una strategia recuperando scelte che hanno prodotto più risultati, come il modello Sprar che prevedeva un’accoglienza diffusa e più gestibile e omogenea a livello territoriale. Occorre anche mettere a disposizione percorsi di formazione per garantire lavoro e futuro a quanti arrivano, senza i quali i decreti-flussi rischiano di essere inefficaci. Ma serve capacità di pianificazione e umiltà, il tempo degli slogan è finito e non ci si può riparare dietro al fragile paravento dell’imprevedibilità. Non si può del resto gioire del fallimento del paese per semplici motivi di opposizione al governo e per questo va sgombrato il terreno dalle ideologie e dalle battaglie elettorali per affrontare insieme e con pragmatismo un tema che fa parte della nostra epoca.

Dario Nardella, sindaco di Firenze

 


L’accoglienza diffusa andrebbe considerata un asset strategico nazionale

In piena campagna elettorale per le europee, Giorgia Meloni e Matteo Salvini si sono lanciati in una sfida fra alleati sul campo dell’immigrazione. Nel giro di 48 ore premier e vicepremier hanno dato prova che travestirsi da europeisti pragmatici, come dimostrato dal Patto europeo sull’immigrazione che avevano accettato di sottoscrivere nel giugno scorso, paga fino a un certo punto. Perché poi, quando si tratta di tornare alle urne, Meloni e Salvini sanno che è il momento di impugnare di nuovo le armi di sempre e tornare a stringersi nei caldi abbracci di Orbán. Ecco allora gli appelli all’impiego della Marina militare per respingere i barconi. Oppure lo spettro dei milioni di migranti pronti a salpare agitato dalla premier. O ancora, il complotto tedesco contro l’Italia per favorire l’invasione. Il tutto per nascondere il fallimento di provvedimenti come il decreto Ong e quello Cutro che, numeri alla mano, si sono rivelati dannosi, se non inutili. La situazione in Africa, come ha ricordato la premier, è drammatica e proprio questo dovrebbe aprire gli occhi sull’urgenza di adottare contromisure adeguate, che vadano oltre sistemi repressivi come l’aumento della detenzione dei migranti irregolari nei Cpr fino a 18 mesi, visto che nel frattempo i rimpatri restano fermi a numeri infinitesimali. A livello europeo sarebbe consigliabile evitare lo scontro continuo con chi – Francia e Germania – dovrebbe essere invece al nostro fianco per cambiare la politica dell’asilo in Ue. Ancora: capire che i grandi fenomeni di destabilizzazione in corso in Africa e nel medio oriente non si placheranno nel breve periodo. E’ un punto riconosciuto anche da Meloni, che però insiste sulla retorica delle “zero partenze” con fantomatiche missioni navali. Un controsenso, perché per i leader populisti e nazionalisti del Nord Africa, l’età colonialista è finita da un pezzo e non accetteranno mai missioni straniere a due passi dai loro paesi, come si illude la premier, per vedersi rimandare indietro i migranti. Concretezza e fuga dalle ideologie impongono di capire con chi si sta parlando e cosa può offrire. Il caso vuole che in Libia e Tunisia ci siano leader corrotti, criminali o autoritari del tutto inaffidabili. Se si vuole insistere a foraggiarli, le ultime settimane dimostrano che i numeri degli arrivi sulle nostre coste sono destinati a non diminuire mentre i ricatti come quelli di Saied sono destinati ad aumentare con zero benefici in tema di flussi. Meglio allora prepararsi adeguatamente a livello nazionale. In un paese in crisi demografica, alla ricerca di manodopera e con un sistema previdenziale al collasso, accogliere migranti dovrebbe tradursi nella buona pratica di formare cittadini. Usare fondi europei per ampliare i centri di accoglienza e moltiplicarli, per poi puntare sul sistema di accoglienza diffusa, i Sai, distribuendo i richiedenti asilo e i beneficiari di protezione umanitaria in modo uniforme sul territorio, soprattutto al nord, dove i numeri dei Sai sono più bassi e il tessuto socio-economico è più pronto a integrare. Magari facendo propria l’idea dell’Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione: l’accoglienza diffusa andrebbe considerata un asset strategico nazionale che non dovrebbe essere vincolato ai veti dei comuni che rifiutano di accogliere piccoli, piccolissimi gruppi di migranti. Occorre invece rendere l’integrazione obbligatoria ovunque, equiparandola a un’iniziativa di interesse nazionale. Si tratta di cambiare paradigma, insomma: investire sull’immigrazione, anziché subirla. 
Luca Gambardella

 


Perché il memorandum tra Unione europea e Tunisia non ha funzionato

I motivi dell’insuccesso del memorandum Ue-Tunisia, pensato per ridurre i flussi migratori verso l’Italia, e fondato su cinque pilastri vòlti tra le altre cose alla stabilizzazione macroeconomica del paese, sono principalmente tre: l’insoddisfazione generale della guardia costiera tunisina, che ancora non ha ricevuto il denaro promesso dal presidente Kais Saied tempo addietro, e che lamenta un’attrezzatura obsoleta per gestire le crisi migratorie; un mancato controllo di Saied sul ministero dell’Interno e apparati come la guardia costiera e la guardia nazionale, che prendono iniziative per conto proprio come quella di espellere 1.200 persone di carnagione nera verso la Libia a inizio luglio 2023; e un forte aumento dell’intransigenza dei tunisini verso i migranti subsahariani, fomentata da Saied stesso con il suo discorso del febbraio 2023 sulla sostituzione etnica, e quindi un aumento delle violenze nei loro confronti. Altri fattori come il cambiamento climatico, le guerre civili nell’Africa subsahariana, la fame e la povertà sicuramente giocano un ruolo, ma non sono nuovi fattori e quindi non possono spiegare un aumento così improvviso dei flussi. Al bilancio statale mancano circa 5 miliardi di dollari, disavanzo che non permette al presidente di comprare beni importati come il riso e grano, né tanto meno di pagare la guardia costiera. Il memorandum prevederebbe un finanziamento di 105 milioni di euro per fermare i flussi, denaro destinato ad aiutare nella gestione delle frontiere (principalmente acquisizione di attrezzature, formazione e supporto tecnico della guardia costiera tunisina), nonché a una nuova iniziativa di “Talent partnership” per promuovere la migrazione legale. Tuttavia, questi soldi ancora non sono stati sborsati, e i recenti sviluppi (l’ombudsman dell’Ue ha chiesto spiegazioni sul mancato rispetto dei diritti umani e a una delegazione della commissione Affari esteri è stato vietato l’ingresso in Tunisia) non sono di buon auspicio per l’implementazione dell’accordo. Inoltre, la tattica utilizzata da Kais Saied per scoraggiare i migranti subsahariani dal raggiungere la Tunisia (e quindi poi dimostrare all’Ue di essere in grado di gestire i flussi), è quella di fomentare la violenza contro di loro e rendere la loro vita insopportabile a tal punto da fargli cambiare rotta. 

Questa tattica contrasta però con i princìpi fondanti (e fondamentali) dell’Unione, legati alla difesa dei diritti umani universali, e le azioni di Saied contro i migranti subsahariani saranno difficili da giustificare in primis al Parlamento europeo (che non ha votato al memorandum) e in secondo luogo a tutti quei paesi con i quali l’Unione utilizza la leva dei diritti umani per fare pressione sui membri che si sottraggono a certi princìpi fondamentali (quali Polonia e Ungheria).

Alissa Pavia, direttore associato del desk Nord Africa dell’Atlantic Council

 


L’unica possibilità per il governo è intestarsi una strategia per la risoluzione del problema

Il mare Mediterraneo è troppo grande e non si può fare nessun blocco navale. Di questo tutti, in modo esplicito o meno, nella maggioranza hanno preso coscienza. La promessa elettorale va dunque rottamata per sempre. Anche perché siamo di fronte a un enorme fenomeno epocale, quello migratorio, che rischia di ribaltare strutturalmente l’equilibrio politico, sociale ed economico europeo. Che fare, allora? Non c’è altra possibilità di richiamarsi alla vecchia ragion di stato. Ciò significa riconoscere che l’Italia, da sola, non ce la può fare ma che il piagnisteo rispetto a questa evidenza non basta più. Il governo deve assumersi e farsi dare la leadership dall’Unione Europea sul tema dell’immigrazione. Meloni dovrebbe andare a Lampedusa e con un discorso poderoso dire a tutti gli europei: se vogliamo governare il fenomeno servono accordi per redistribuire che coinvolgano tutti, ma soprattutto servono risorse che l’Italia possa impiegare per operazioni di guardia costiera, di salvataggio e per sviluppare una politica forte in Africa. Senza di questo c’è il sacrificio inutile di decine di migliaia di vite umane in mare. Tutti in Europa sanno che il muro del Brennero o di Ventimiglia sono allo stesso modo soluzioni effimere, prima o poi i migranti passeranno e dunque meglio trovare una soluzione comune. Il governo deve dare una dimostrazione di forza, mobilitare tutte le forze dello stato civili e militari tanto nei soccorsi quanto nel controllo della frontiera e chiedere subito a Bruxelles un fondo e un’agenzia da dirigere per rallentare e regolarizzare i flussi nel Mediterraneo. L’unica possibilità per il governo è intestarsi una strategia per la risoluzione del problema, altrimenti resterà soltanto il fallimento della retorica elettorale. E’ un rischio? Senza dubbio, ma l’inazione è comunque perdente sin da subito e veicola arrendevolezza e impotenza. Rilanciare dentro e fuori l’Italia: non per fermare l’inarrestabile, ma per governare a favore della dignità di chi parte e della pace sociale degli europei.

Lorenzo Castellani

 


L’accoglienza non è un pericolo, ma è aprirsi al futuro

E’ tempo di superare la logica un po’ trita e abusata dell’“è colpa dell’Europa”. Si tratta di costruire, fuori da logiche emergenziali, un equilibrio fra tre valori fondamentali, che – assieme – devono ispirare una corretta politica di governo delle migrazioni. Penso alla solidarietà, alla sostenibilità e all’opportunità.
Solidarietà perché, riprendendo le parole del mio presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, “una pace giusta non può dimenticare il dramma dei profughi. I fenomeni migratori vanno affrontati per quel che sono: movimenti globali, che non vengono cancellati da muri o barriere. Dietro numeri e percentuali delle migrazioni, vi sono persone, con la loro storia, i loro progetti, i loro sogni, il loro futuro. Il loro futuro tante volte cancellato”. Sostenibilità perché è ragionevole che i singoli paesi si pongano il problema dell’impatto che questi flussi possano determinare sui propri territori e dello stesso peso economico che percorsi, non solo di accoglienza, ma anche di integrazione e di inclusione, possano avere sulle comunità. Ma è anche un’opportunità, perché è oramai dimostrato da istituti demografici, anche istituzionali, quanto pesi sullo sviluppo, soprattutto economico, delle nostre comunità, il calo demografico a cui stiamo assistendo. Un calo demografico particolarmente significativo in Italia, ma credo importante anche in altri paesi europei. Mi spiace di contraddire una recentissima dichiarazione della nostra presidente del Consiglio: è probabilmente vero che una buona e civile accoglienza non risolve il tema della denatalità ma certamente ne mitiga di molto gli effetti. Soprattutto è una leva economica importante se entriamo nella logica che investire su minori non accompagnati realizza un’opportunità di sviluppo e non un buco di bilancio. Naturalmente, come già accennato, credo sia miope una scelta che privilegi la logica dell’emergenza e, quindi, della semplificazione dei processi, in un percorso che ci vedrà fortemente impegnati per molti, molti anni. I muri non sono una risposta, come ci invita a riflettere il cardinale Matteo Zuppi, sono solo un modo ingannevole per cercare di nascondere i problemi. E l’accoglienza non è un pericolo, ma è aprirsi al futuro. Sono convinto che l’unica strada che ci possa consentire l’equilibrio che invocavo prima, sia de-ideologizzare un tema che riguarda la vita delle persone. Dico in maniera più diretta che preoccuparsi del consenso o del dissenso dei propri elettori, rispetto a vicende che riguardano il futuro dei nostri paesi e, soprattutto, la vita delle persone, è non solo ingiusto, ma soprattutto non porta da nessuna parte. E’ ormai convinzione anche di molti autorevoli commentatori che nella grande storia delle migrazioni umane i fatti si dimostrano più forti della visione che ne raccontiamo: politicizzarli è il peggior servigio che possiamo fare ai nostri paesi.

Mario Morcone, prefetto, assessore a Sicurezza, Legalità, Immigrazione nella giunta della Regione Campania

 


Un muro (ma non basterà) o il ritorno a farsi carico dell’Africa

Quali scenari ci attendono sull’immigrazione e come se ne esce? Domande e risposte fornite da un libro scritto da uno studioso francese, tradotto da Einaudi e praticamente passato inosservato in Italia. Lui è Stephen Smith e il libro è “Fuga in Europa. La giovane Africa verso il Vecchio continente”. Quasi una didascalia a Lampedusa. Smith è lo studioso citato da Macron, è stato analista per le Nazioni Unite e l’International Crisis Group, di Africa ha scritto per Libération e Le Monde. Non certo un sovranista. “La situazione ricorda il Messico degli anni 70”, scrive Smith sull’Europa. “Prima di allora, solo una piccola parte della popolazione poteva racimolare i mezzi per attraversare il Rio Grande e stabilirsi negli Stati Uniti. Tra il 1975 e il 2010, dieci milioni di messicani sono emigrati in America sia legalmente che illegalmente. In tutto, compresi i loro figli nati negli Stati Uniti, i messicano-americani ora formano una comunità di 30 milioni di persone, il 10 per cento della popolazione statunitense. Se gli africani seguissero quell’esempio da qui al 2050, la popolazione europea comprenderebbe dai 150 ai 200 milioni di afro-europei, contando gli immigrati e i loro figli. In poco più di trent’anni, tra un quinto e un quarto della popolazione in Europa sarebbe di origine africana. Immagino come gli europei potrebbero tremare al pensiero. Le loro paure non sono affatto infondate”. Questo per la domanda su dove andiamo. Lo scenario che Smith chiama “Eurafrica”. Va da sé che per chi scrive di immigrazione questo non sarebbe affatto un problema. Per molti europei invece sì. Soluzioni? La prima è quella che Smith chiama la “Fortezza Europa”. “Jean-Christophe Rufin lo ha previsto dopo la caduta del Muro di Berlino nel suo libro del 1991 ‘L’Empire et les nouveaux barbares’: la ricostruzione di un limes – il muro di confine dell’Impero Romano – come mezzo di protezione della civiltà europea. Ma le dighe che possono essere erette non saranno sufficienti a fermare le molte onde che ci attendono”. La seconda soluzione è il “ritorno al protettorato”. Rifarsi carico dell’Africa. Ma nel tempo dell’espiazione, del woke, della decolonizzazione culturale e del processo permanente alla “civiltà eurocentrica”, ne siamo ancora capaci? Davvero a fronte dei numeri di Smith ci resta soltanto la filastrocca sui “popoli che emigrano, siamo tutti migranti e il diritto del mare”? 

Giulio Meotti

 


Riconoscere che nel reato di immigrazione clandestina l’unica vittima è il presunto colpevole

Sul tema dell’immigrazione, il governo Meloni ha finora seguito un approccio pragmatico. Lo dimostra il decreto flussi varato a luglio, che consente 453 mila ingressi nel 2023-25 (di cui 136 mila già quest’anno). Il provvedimento ha due pregi: apre la porta a un maggior numero di migranti e offre una pianificazione triennale, evitando la lotteria annuale vista troppe volte nel passato. Tuttavia, si tratta di una risposta parziale alle esigenze del sistema produttivo. Lo stesso esecutivo ha condotto una estensiva indagine coinvolgendo i sindacati e le associazioni datoriali (una buona prassi che, si spera, sarà confermata in futuro). Il fabbisogno stimato è circa doppio, oltre 800 mila individui nel triennio, come del resto ogni volta emerge dagli esiti del rito (barbaro) del click day. Il fatto che è che l’Italia sta attraversando una complessa transizione demografica e lavorativa. La popolazione continua a diminuire: nel 2022 abbiamo perso 320 mila unità. Il governo è perfettamente consapevole delle conseguenze di questa situazione, tanto da averlo messo nero su bianco nel Def: “Data la struttura demografica degli immigrati che entrano in Italia, l’effetto è significativo sulla popolazione residente in età lavorativa e quindi sull’offerta di lavoro”. Simmetricamente, resta significativo il numero di ingressi irregolari, che si è cercato di mettere sotto controllo per mezzo di proclami e misure muscolari e spesso incivili, ma che difficilmente potrà essere governato senza allargare ulteriormente i canali legali per approdare in Italia. Il paradosso è che al paese servono più migranti, alle frontiere ci sono più persone che premono per entrare, ma la legge impedisce a queste due necessità complementari di incontrarsi. Nel passato, si è risposto a questo problema con ripetute sanatorie, la cui unica funzione è di prendere atto e legittimare una realtà di fatto (stante l’evidente fallimento della politica dei rimpatri). E’ qui che Meloni e Piantedosi dovrebbero intervenire: la legge Bossi-Fini, qualificando come reato l’immigrazione irregolare, ha un impianto criminogeno, che spinge i disperati quando va bene verso lo sfruttamento e il lavoro nero, quando va male verso la criminalità. Cosa particolarmente odiosa quando la condizione di irregolarità nasce da un mancato rinnovo dei permessi per individui che, magari, erano entrati legalmente e avevano svolto in precedenza un impiego regolare. Può apparire controintuitivo, ma il primo e più importante passo verso una migliore gestione delle presenze straniere nel nostro paese sta nel riconoscere che quello di immigrazione clandestina è un reato in cui l’unica vittima è il presunto colpevole.

Carlo Stagnaro

 


Pericoloso e controproducente allungare a 18 mesi il tempo di permanenza nei centri per i rimpatri

Premesso che dare consigli su migranti e migrazioni, emergenza apocalittica o fenomeno strutturale, espone al rischio di ideologia o superficialità, presunzione o moralismo predicato al calduccio mentre incombe la campagna elettorale, credo che Giorgia Meloni  dovrebbe pensarci bene prima di inseguire le battaglie navali di Salvini contro l’Europa o la svolta complottista di Bruno Vespa: “La sinistra della Commissione europea sabota gli accordi con la Tunisia”, ha scritto quest’ultimo su QN.  Come se le immagini di Lampedusa non ponessero problemi alla commissione o ai governi o come se sugli accordi con il presidente tunisino, non avesse messo la faccia anche Ursula von der Leyen. 

Meglio per la premier e leader di Fratelli d’Italia, lasciar perdere i complotti e accettare la sfida della differenza, con la Lega e con la sé stessa di un anno fa.  Introiettando l’idea che la soluzione non è una sola, né bianca (porti sempre aperti), né nera (porti sempre chiusi), né unidirezionale, la destra cavalca la paura, la sinistra la nega. Se la sinistra deve tradurre in fatti la parola integrazione, la destra di governo non può averne paura. Ripristinare l’accoglienza diffusa dell’epoca Minniti, gli Sprar e magari anche i permessi umanitari, potrebbe funzionare considerando strutturale il fenomeno immigrazione.  Pericoloso e controproducente allungare a 18 mesi il tempo di permanenza nei centri per i rimpatri: Meloni, nel video di venerdì, ha fatto allusione a una improbabile differenza di status fra i migranti, ma la verifica dei diritti è sempre un momento successivo. 18 mesi di detenzione sono potenzialmente esplosivi, sicuramente poco umani e nessun conoscitore del dossier ritiene possano essere un elemento di dissuasione per chi vuole a tutti i costi partire. Specie nella situazione attuale dell’Africa. 

Ed ecco il piano geopolitico dove urge una visione articolata e consapevole degli spazi di manovra dell’Italia e dell’Europa. E infine la sempre invocata revisione del trattato di Dublino in un punto preciso, eliminare la responsabilità automatica del paese di prima accoglienza, il processo è in corso da tempo. Convincere Polonia e Ungheria a non bloccare le intese, vedi il Consiglio europeo di giugno.  Evitare di offrire pretesti per un isolamento pericoloso: un veto su un tavolo per negoziare su un altro può funzionare, ma è complicato in una campagna elettorale che riguarda ogni paese. Sarebbe deludente rispetto a numeri e ambizioni della premier, se bastassero la Le Pen a Pontida e gli attacchi di Salvini con la nostalgia del 2019  gialloverde dei decreti sicurezza, a fermare la transizione di Fratelli d’Italia verso il partito conservatore italiano. 

Alessandra Sardoni

 


Italia incapace di fare tesoro delle esperienze del passato

Le immagini che arrivano da Lampedusa allarmano, migliaia di persone stanno approdando sulla piccola isola del Mediterraneo, più vicina alla Tunisia che all’Italia, senza che sia preparata ad accoglierle. Non era difficile prevederlo: da mesi nelle città portuali della Tunisia non si fermano gli arrivi di persone dall’Africa subsahariana. A Sfax da luglio migliaia di migranti sono accampati nella piazza principale della città, perché i tunisini non gli affittano più le case, ultimamente il governo di Kais Saied ha vietato anche la distribuzione di pasti e di beni di prima necessità agli stranieri che si trovano nella seconda città della Tunisia, principale porto di partenza verso Lampedusa. Anche se il 16 luglio la presidente della Commissione  europea Ursula von der Leyen (accompagnata dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal premier olandese Mark Rutte) ha firmato con il presidente tunisino un accordo milionario che prevede tra le altre cose che Tunisi rafforzi i controlli alle frontiere e fermi le partenze, i migranti continuano ad arrivare nel paese nordafricano che vive una crisi economica e politica senza precedenti: anzi, per Matteo Villa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), le partenze sarebbero addirittura aumentate dopo la firma del memorandum. In queste otto settimane infatti sono arrivate in Italia dalla Tunisia quasi 31 mila persone, mentre nelle otto settimane precedenti agli accordi ne erano arrivate 19 mila. Basta parlare con i migranti a Sfax per capire che Saied, che fa la voce grossa con l’Europa chiedendo più finanziamenti, in realtà non controlla completamente il territorio: i migranti passano in massa a piedi dall’Algeria, spesso corrompendo le guardie di frontiera. E per i tunisini il traffico di esseri umani è diventato un affare troppo redditizio perché qualsiasi autorità centrale possa fermalo: i tunisini fabbricano dei barchini di ferro precari sui quali fanno salire decine di persone. Pochi costi, molti rischi per i migranti, grandi guadagni. In Tunisia – come è avvenuto in Libia per decenni – i migranti sono diventati dei bancomat viventi: ogni servizio viene offerto loro a prezzi maggiorati. 

Dal canto suo l’Italia sembra completamente impreparata ad affrontare l’ennesima crisi, incapace di fare tesoro delle esperienze del passato. Gli arrivi dell’estate del 2023, seppure imponenti, sono in scala con quelli degli anni della cosiddetta crisi dei rifugiati (2015-2016-2017), ma nel frattempo l’Italia ha smantellato qualsiasi dispositivo di soccorso e di accoglienza. Nel 2016 arrivò via mare nel paese un numero simile di persone, ma all’epoca erano soccorse al largo da una missione militare europea che le teneva lontane da Lampedusa e le portava in fretta e in maniera coordinata nei diversi porti italiani. Numeri simili non provocarono lo stesso allarme. Ma nel frattempo la rincorsa al consenso e a fantasiose teorie del complotto, ha condannato l’Italia a vivere nell’eterno ritorno di un problema che ai più appare senza soluzione.

Annalisa Camilli

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