a bruxelles
Perché, oltre alla solidarietà, Meloni in Europa rischia di ottenere ben poco sui migranti
Macron, Sánchez e Metsola spingono per definire l'accordo di giugno: e lì non c'è nessuna delle pretese di Palazzo Chigi. La fermezza della Germania dietro le resistenze dell'Ue sul memorandum tunisino. La difficoltà di recuperare le missioni navali (citofonare Saied). E al "blocco navale", in qualsiasi forma, nessuno a Bruxelles pensa davvero
Quel che c’è davvero, dietro la solidarietà d’ordinanza, nessuno lo sa davvero. Giorgia Meloni è a quella che s’aggrappa, all’attestazione di vicinanza, per dimostrare “il cambio di paradigma”. E il fatto che si sia qui a dover commentare almeno la terza “rivoluzione copernicana” sull’immigrazione, dacché la capa di FdI è a Palazzo Chigi, dà la misura della sostanza di queste “svolte”. E dunque ecco la premier che entra in Cdm e rivendica “il sorprendente piano in dieci punti proposto da Ursula von der Leyen”, che pure è poco più di una riproposizione di progetti che Bruxelles ha già varato, spesso con non formidabile efficienza, sulla gestione dei migranti. Ed è lo stesso velleitario entusiasmo che Meloni sfoggiava dopo aver ottenuto, nelle conclusioni del Consiglio europeo di febbraio, la rimasticatura di impegni già assunti in passato, e poi rimasti lì a mezz’aria. “Un cambio di passo decisivo nel riconoscimento delle frontiere marittime”, esultava la premier. Sette mesi fa. Ed eccoci qui, di nuovo. Ad ascoltare la diplomazia di Palazzo Chigi illustrare gli sforzi che ci sono voluti per fare in modo che all’ordine del giorno del prossimo Consiglio europeo, a Granada, il 6 ottobre, venisse inserito il tema dell’immigrazione. Concessione fumosa, se è vero che da Madrid fanno sapere che “si tratterà di un aggiornamento, per fare il punto”. Sai che roba.
Del resto, che sotto le dimostrazioni di vicinanza possa esserci poco, per Meloni, da strappare, lo ha dimostrato l’apparente incoerenza di quel Gérald Darmanin, ministro dell’Interno francese, che a poche ore dalla sua partenza per Roma, dove ieri sera ha incontrato Matteo Piantedosi, ha ribadito che “la Francia non prenderà i migranti appena sbarcati a Lampedusa”. Con grande scorno di Matteo Salvini, che ha subito inveito contro Parigi, quasi ignorando che quel puntiglio di Darmanin altro non era che un assecondare le richieste di fermezza arrivate all’Eliseo dal Rassemblement National di Marine Le Pen.
Ma al di là della polemica politica, e dei cortocircuiti sovranisti, ci sono le procedure europee. Emmanuel Macron ha fatto sapere che ritiene prioritario, proprio per affermare l’esigenza della risolutezza, approvare entro l’anno il nuovo Patto per le migrazioni e l’asilo. Analoga sollecitudine è stata predicata dal governo Sánchez, che detiene la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, e dalla presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola. Solo che in quel Patto (che a luglio Meloni salutò come “un importante passo avanti” – e tre! – anche a costo di strappare con gli amici polacchi e ungheresi) non c’è nessuna delle richieste che la premier va reiterando in queste ore. Non c’è la chiusura delle frontiere marine, non c’è alcun blocco navale, e non c’è alcuna redistribuzione obbligatoria. Anzi, il principio che la responsabilità su identificazione e prima accoglienza dei migranti ricade sui paesi di sbarco è perfino rafforzato. Se davvero, come pare, l’interesse generale è quello di ratificare in Consiglio e Parlamento europeo quell’accordo in tempi rapidi, spazio per grosse rinegoziazioni non ce ne sono.
Tanto più che, oltre a Francia e Spagna, a rendere complicato l’ipotetico stravolgimento delle regole è soprattutto la Germania. A Berlino considerano del tutto irrealistica l’ipotesi di una missione navale finalizzata al respingimento dei migranti. Nancy Faeser, la ministra dell’Interno, nel rinnovare la solidarietà italiana plaudendo all’iniziativa di von der Leyen, ci ha tenuto a precisare, e non è un dettaglio, che una eventuale missione navale europea non potrebbe fare altro che “monitorare la situazione”, nell’ottica cioè del soccorso, al largo delle acque libiche o tunisine (la sola declinazione, del resto, prevista dal contratto di governo della coalizione guidata da Scholz). Ma qui, più che al blocco navale rievocato nelle scorse ore da Meloni, siamo al recupero di Mare nostrum, con l’inaggirabile fondamento per cui i migranti salvati andrebbero fatti sbarcare nei porti più vicini, cioè in Italia. E del resto, e anche su questo a Berlino c’è piena consapevolezza, qualsiasi ipotesi di intervento più muscolare in acque territoriali tunisine, oltre a configurarsi come un atto paramilitare, confligge con una realtà dei fatti che vede perfino i mezzi di Frontex, e da settimane, impossibilitati ad avvicinarsi al porto di Sfax. Altro che “bloccare le partenze”, insomma.
Senza contare, poi, che le tensioni tra Italia e Germania si registrano anche sul dossier che tanto ha alimentato lo sdegno di Palazzo Chigi. La lettera con cui Josep Borrell, il capo della diplomazia di Bruxelles, ha denunciato le storture procedurali alla base del memorandum con Kais Saied dà voce a perplessità e lamentele che sono le stesse condivise anche da Annalena Baerbock, la ministra degli Esteri tedesca che ha più volte stigmatizzato, e con modi e con toni assai decisi, l’accordo. Tanto più che, come del resto nel Memorandum Said ha preteso che venisse scritto, da quegli accordi non discende alcuna disponibilità di Tunisi a trattenere i migranti sul proprio territorio. E sì che pure questo doveva essere “un cambio di paradigma”.
Non resta allora che estendere da 3 a 18 mesi la permanenza dei migranti che non chiedono asilo nei Centri per il rimpatrio, mentre la Difesa s’impegna a realizzare nuove strutture per l’accoglienza straordinaria. Ma questo nessuno, almeno finora, lo ha presentato come una “rivoluzione copernicana”.