Perché le mosse europee di Salvini inquietano tanto Meloni
I vertici del Ppe liquidano le ipotesi di alleanze a destra proposte dal leader della Lega: "Esistono solo nella sua testa". Ma la premier, che deve già gestire le bizze dei suoi amici polacchi, teme che si arrivi a uno scenaruio simile a quello del 2019: quando il sostegno del M5s a Von der Leyen innescò di fatto la crisi del Papeete. Scenari
Le sue supposte buone intenzioni sarebbero dimostrate dal sapersi controllare. “Molti di noi avrebbero osato di più, dal palco di Pontida”. E del resto che l’offensiva sarebbe stata più aspra se lo aspettavano anche a Palazzo Chigi. “Farà il panico”, erano le previsioni della vigilia. E invece ora Matteo Salvini recita la parte di quello che “mi disegnate più cattivo di quel che sono”, ché lui non ha alcuna intenzione di sfasciare il governo, e per questo ha richiamato all’ordine i suoi colonnelli: “Nessuno attacchi Giorgia”. Solo che poi, pure ammettendo come reali le sue esibite buone intenzioni, c’è la realtà dei fatti. C’è Marine Le Pen, c’è il lavoro ai fianchi nei confronti di Meloni sulle alleanze europee. Una mossa così scriteriata, se si sta al merito, che perfino ai vertici del Ppe, chi ha parlato con Manfred Weber nelle scorse ore dice che “l’ipotesi di una coalizione di centrodestra che includa anche gli alleati della Lega non esiste, se non nella testa di Salvini”.
Per una ragione evidente, anzitutto. “E cioè che il Rassemblement National o i tedeschi di AfD”, cioè quelli con cui il leader del Carroccio resta fiero compagno di viaggio, “non sono partiti di centrodestra, ma di destra estrema”. Discorso che non vale, beninteso, solo per gli esagitati di Identità e democrazia, ma anche per parecchi dei membri di quell’Ecr di cui Meloni è presidente. Weber da tempo va ripetendo che, più che quello tra destra e sinistra, il discrimine principale che varrà per stabilire il perimetro della prossima maggioranza politica a Bruxelles sarà quello che separa “distruttori dai costruttori”, cioè tra “quelli che vogliono una maggiore integrazione europeo e quelli che credono nel nazionalismo”. E certo difficilmente al primo gruppo sarà facile includere gli spagnoli di Vox, per cui la presidente del Consiglio si è esposta nella recente campagna elettorale spagnola. Quanto ai polacchi del PiS, ci ha pensato nientemeno che Mateusz Morawiecki in persona, ieri, a illuminare le contraddizioni che vigono dentro la pattuglia dei Conservatori, liquidando come “disastroso” il piano sull’immigrazione proposto da Ursula von der Leyen a Lampedusa, quello cioè che Meloni ha esaltato come un “cambio di paradigma” ispirato proprio dalla leader di FdI.
Ed eccole, dunque, squadernate, le tribolazioni che la premier deve gestire, in vista delle europee. Costruire un legame coi vertici del Ppe, coltivarlo, puntare insomma a farsi accogliere nel club degli adulti nella stanza, dopo il voto di giugno, forte anche di numeri che la renderanno non proprio trascurabile nelle dinamiche del Parlamento europeo, e al tempo stesso gestire degli amici che ne studiano le mosse, che ne misurano la fedeltà e che al dunque, per quanto lei si guardi bene dal riconoscerlo, gli sono ora più d’impaccio che d’aiuto, in questo suo sforzo di maturazione. E forse anche la scelta, già annunciata, di abdicare dalla presidenza di Ecr all’indomani delle elezioni servirà proprio a questo, a concederle una libertà di manovra maggiore.
Solo che qui si arriva a Salvini. Che sarà pure accorto nel tutelare “il bene supremo del governo”, come fa sapere, ma sulla faccenda delle alleanze non desisterà di qui a giugno. E non solo perché, dopo essersi visto additato come traditore da meloni per quasi due anni, mentre lui stava, sia pur recalcitrando, al governo Draghi con Pd e M5s, ora vuole ripagare l’amica Giorgia della stessa moneta. Ma anche perché, e non è detto che le due cose non coincidano, secondo lui sarà inutile tornare a lamentarsi delle storture dell’Unione europea e dei suoi burocrati se già fin d’ora si accetta di voler ricostruire, partecipandovi, alla stessa maggioranza trasversale che da decenni la governa. Ed è sotto questa luce che le sue promesse di lealtà si deformano, si proiettano come lugubri ombre cinesi sui muri di Palazzo Chigi. Perché pure nel 2019, nell’estate del Papeete e della crisi più pazza del mondo, tutto cominciò a precipitare per via della decisione del M5s di sostenere Ursula von der Leyen, garantendo alla ex ministra della Difesa tedesca quella manciata di voti che risultarono decisivi per non venire impallinata nell’Aula di Strasburgo. “Un asse tra grillini e Renzi è gravissimo”, tuonò il capo leghista. E forse era solo il pretesto che in tanti a Via Bellerio cercavano per giustificare una rottura dettata da ben altre apparenti convenienze, ma fu quel fattaccio che innescò l’escalation. Era il 16 luglio. Due giorni dopo, Salvini disertò il Cdm: “E’ venuta meno anche la fiducia personale”. Passarono tre settimane di bisticci e mezze ricomposizioni. Poi tutto finì come si sa. E tutto finì perché un alleato di governo rinnegò i propositi bellicisti nei confronti di Bruxelles e si vendette al nemico, fece patti con Macron e coi socialisti. Ricorda qualcosa?
E certo le differenze, tra quella e questa coalizione di governo, e certo la distanza tra il consenso di allora di Salvini e quello attuale, e insomma molti elementi del contesto sono diversi, e stanno lì a sconsigliare qualsiasi facile parallelismo. E poi mancano nove mesi alle europee. Figurarsi. Però nei pensieri dei vertici di FdI – che pure dicono: “A Matteo non converrebbe, e lo sa: se tira la corda Giorgia fa saltare il banco e porta tutti al voto, e poi vediamo” – quel tarlo inizia a lavorare.