fondi europei
Sanità e non solo. Perché la sfiducia di Meloni sul Pnrr era smisurata. Citofonare: Fitto
Fratelli d'Italia alla fine esulta per l'approvazione in Europa delle modifiche alla quarta rata del piano. Smentendo la litania catastrofista meloniana
Esultare, perfino, forse pare eccessivo. La soddisfazione di Raffaele Fitto, per carità, quella ci sta. L’approvazione delle richieste di modifica alla quarta rata del Pnrr da parte della Commissione europea, ufficializzata ieri, per quanto già anticipata dagli uffici di Bruxelles, è comunque un risultato positivo. Però addirittura l’ordine sulle chat dei parlamentari da Palazzo Chigi perché tutti si unissero al coro di entusiasmo, e dagli ai “gufi”, decisamente un po’ troppo, se si pensa che “il successo” riguarda la modifica di obiettivi che, se tutto fosse andato come avrebbe dovuto, sarebbero stati conseguiti entro giugno – e invece siamo ancora qui ad attendere il bonifico da 18,5 miliardi per i target di dicembre scorso. Sul Pnrr, insomma, pas trop de zèle. E non solo nel rivendicare i trionfi, veri o presunti. Perché il trionfalismo spropositato di oggi è l’altra faccia del catastrofismo esasperato con cui, qualche mese fa, i vertici di FdI commentavano il Recovery. Sulla sanità, ad esempio.
E’ stato appena pubblicato uno studio dell’Agenas – l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali – sull’attuazione del Pnrr per quel che riguarda la medicina di prossimità. Ebbene, a giugno scorso risultavano pienamente attive 187 case di comunità e 76 ospedali di comunità. Le regioni più celeri sono soprattutto al nord (Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna), ma anche in Puglia le procedure vanno avanti spedite. Sono numeri ancora contenuti, se si pensa che nel Piano sono state previste 1430 case e 424 ospedali di comunità: ma la tabella di marcia è positiva, se si pensa alla scadenza di giugno 2026. Si tratta, del resto, del potenziamento di quella struttura sanitaria capillare, fortemente radicata al territorio, le cui debolezze erano state così accoratamente denunciate durante la pandemia del Covid. E si capisce, allora, anche la soddisfazione espressa dal ministro della Salute, Orazio Schillaci, nel rivendicare che il suo ministero sta rispettando i tempi dell’attuazione. Senza negare, ovviamente, le difficoltà che il Piano comporta: perché l’apertura di quelle Case di comunità impone nuove assunzioni, perché serve personale qualificato, e perché una volta che entrerà a regime questa rete di strutture comporterà un aumento strutturale del bilancio. Ma i soldi che il Pnrr vi dedica, 7 miliardi, sono evidentemente un’opportunità notevole per rafforzare un sistema sanitario che, stando proprio alle istanze dello stesso Schillaci, abbisogna di risorse notevoli e di riforme coraggiose.
E insomma anche questa storia di affannosa efficienza nell’attuazione del Pnrr si presta un po’ da apologo per illuminare un atteggiamento vagamente disfattista che da parte di FdI è stato applicato al Next Generation Eu. Era il 29 settembre del 2022 quando Marcello Gemmato, allora responsabile Sanità del partito della fiamma, annunciò la patriottica volontà di smantellare quel capitolo del Piano. “Le case di comunità non servono: se anche si riuscissero a realizzare, non garantirebbero servizi ai cittadini dei paesi più isolati e delle aree interne. Molto meglio sarebbe puntare su medici di base e su farmacisti”. Ora, anche sorvolando sul fatto che Gemmato sia incidentalmente un farmacista figlio di farmacisti, e pure ignorando la stranezza per cui avrebbe dovuto chiedere, per i medici di base, soldi a un ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che dei medici di base diceva “Ma chi ci va più, dai medici di base?”, ecco insomma anche liquidando come argomenti da polemica misera tutto ciò, resta da chiedersi se non fosse, quella di Gemmato, una dichiarazione improvvida?
Di certo non era isolata, in ogni caso. Perché la retorica prevalente in quel periodo ai vertici di FdI consisteva nell’evocare stravolgimenti del Pnrr. “Va profondamente modificato, per non dire che va riscritto da capo”, diceva Meloni in campagna elettorale. Erano i fumi della competizione, gli eccessi dei comizi, e va bene. Ma era già presidente del Consiglio, e da mesi, quando, nel marzo scorso, replicando a chi nell’Aula di Montecitorio le rimproverava di non aver mai sostenuto davvero il Piano, la capa della destra rispose: “Vedremo alla fine se è stato davvero un successo”. Tradendo una sfiducia che evidentemente era ancora la stessa che, nel maggio del 2020, quando a Bruxelles si varava il Recovery plan, la induceva a scrivere al Corriere per spiegare che sarebbe stato più conveniente per l’Italia rifiutare quei fondi e accedere ai Diritti speciali di prelievo del Fondo monetario internazionale (quelli pensati per i paesi in via di sviluppo, e che non a caso oggi Palazzo Chigi vorrebbe fossero destinati alla Tunisia).
Per fortuna, né Giuseppe Conte prima né Mario Draghi poi seguirono i suggerimenti di Meloni. Che del resto neppure Meloni ha seguito, una volta diventata premier. E le modifiche al Pnrr le ha negoziate con Bruxelles, e se le è viste approvare. Per poi chiedere ai suoi parlamentari di fare tweet e agenzie contro “i gufi che preconizzavano sciagure e disastri, e sono stati smentiti”. Ecco, appunto.