Meloni sull'immigrazione valuta il "modello Ruanda", e intanto teme la crisi in Egitto
Il colloquio a New York col presidente Kagame. L'ipotesi di replicare l'accordo fatto dal governo britannico col paese africano, ma puntanto su altri stati. "Non sarebbe una deportazione", dicono da Palazzo Chigi. Nel frattempo il Cairo rischia il collasso, e appare come la nuova Tunisia
Farlo anche noi, prendendo a modello il governo inglese, quello no, “non è nei programmi”. Ma approfondire, “al di là delle strumentalizzazioni dei media”, perché no? Del resto Rishi Sunak, quando l’aveva ricevuta a Downing Street, di fronte all’interesse mostrato dalla sua ospite sull’accordo col Ruanda, di fronte a quell’apprezzamento per “una soluzione che non ha nulla a che vedere con la deportazione”, glielo aveva suggerito: “Kigali è il miracolo economico africano, e bisognerebbe studiare le ragioni di questo successo”. Ed ecco che allora Giorgia Meloni ha fatto in modo che le agende si incrociassero: e anche a costo di disertare il Consiglio di sicurezza con Volodymyr Zelensky, nel Palazzo di vetro delle Nazioni unite ha voluto incontrare Paul Kagame, il presidente ruandese. E con lui ha discusso di sviluppo, di cybersecurity, ha prospettato un rafforzamento dei legami diplomatici. “Sull’immigrazione solo un passaggio”, dicono da Palazzo Chigi. Ma non è banale, il dettaglio. Perché quando si parla di migranti, il Ruanda evoca inevitabilmente gli accordi stretti con Londra: la legge varata da Boris Johnson e confermata da Sunak, per quanto mai davvero entrata in funzione, per quanto azzoppata dalla Corte d’appello inglese, resta lì, a segnare un prima e un dopo quantomeno nell’immaginario europeo. Il progetto, cioè, di dirottare a Kigali e dintorni i migranti in attesa di responso sulle loro richieste d’asilo presentate al Regno unito, con la possibilità poi di lasciarli lì, nel cuore dell’Africa, anche quando quella richiesta venisse accolta. Pure Meloni, dunque, ci sta pensando?
Non direttamente. Non c’è l’idea, cioè, di replicare l’iniziativa inglese. Ma di valutare se eventualmente con altri paesi africani si possa imbastire una trattativa analoga, per evitare che le lungaggini inevitabili nello smaltimento delle procedure burocratiche connesse alla verifica dei requisiti per l’asilo dei migranti producano congestione di uomini e donne nelle solite località, a questo a Palazzo Chigi stanno pensando. “Più soluzioni si trovano, anche coi paesi africani, per alleggerire la pressione, e meglio è”, disse Meloni in visita da Sunak, esprimendo apprezzamento per la scelta inglese. Era fine aprile. Ora il caos di Lampedusa ha riacceso l’interesse. Perché certo, i nuovi Cpr che il genio militare dovrà costruire in tutta fretta, rispondono a questa esigenza. Ma se accanto a questa soluzione si possono sperimentare intese coi paesi di transito africani, nella stessa logica, perché no?Del resto la situazione è così delicata che tra Viminale e Palazzo Chigi nessuno si sente di escludere a priori delle ipotesi. Tanto più che, ad alimentare le ansie di diplomatici e intelligence, oltre alla Tunisia, c’è ora l’Egitto, paese strategico nello scacchiere mediorientale che vive una profonda crisi economica e sociale. I monitoraggi effettuati dal Fondo monetario internazionale, che a dicembre ha concesso ad regime di al-Sisi un prestito di 3 miliardi di dollari stanno dando esiti negativi: riforme sospese, riduzione del debito e crescita al palo. In più, nel tentativo di sbrogliare il groviglio non proprio armonioso tra amministrazione pubblica, esercito e imprese di stato, al-Sisi sta finendo con l’inimicarsi buona parte dei generali da cui dipende la sua stabilità. E se ci si aggiungono le sue mezze strambate filorusse degli ultimi mesi, si capiscono le dimensioni del pasticcio.
Già a giugno, non a caso, la dg del Fmi, Kristalina Georgieva, nell’evidenziare i ritardi egiziani, sentenziò che “così è come mettere acqua in un colabrodo”. Da allora la situazione non è migliorata, e anche per questo a Washington stanno valutando una sospensione nell’erogazione delle rate del prestito. Il che potrebbe innescare un collasso del governo, con quel che ne conseguirebbe anche in termini di flussi migratori, ma già così si riflette, negativamente, sugli interessi italiani. Perché in parecchi, su entrambe le sponde dell’Atlantico, vedono nell’affanno egiziano uno scenario che si ripeterebbe analogo in Tunisia, opponendosi dunque alla concessione del prestito del Fmi a Tunisi che Meloni vorrebbe sbloccare. E anche per questo Antonio Tajani, che a New York ha avuto un bilaterale con l’omologo egiziano, a ottobre volerà al Cairo.