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L'analisi

Anche con Meloni è sempre la solita Caritas di governo

Stefano Cingolani

Assistenzialismo in nome delle “fasce deboli”? La destra non inverte la tendenza. E poi bonus a pioggia, nuova maschera del clientelismo

I sociologi la chiamano trappola della povertà, i politici parlano delle “fasce più deboli”. S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo, direbbe l’impareggiabile autore del grande romanzo nazionale. Il viceministro dell’Economia Maurizio Leo lavora alacremente a una riforma delle tasse, ma ammette che costa, non ci sono le risorse quest’anno e forse nemmeno il prossimo visto che l’economia rallenta. Certo l’Italia può evitare una recessione, ma la frenata è brusca, dal più 3,7 per cento del 2022 al +0,8 previsto nel 2023 (e forse è una stima in eccesso). Dunque, bisogna dare la priorità alle fasce più deboli, spiega il plenipotenziario fiscale per Fratelli d’Italia. L’inflazione colpisce soprattutto loro, nemmeno a dirlo, e non bastano certo i buoni benzina a compensare il taglio del reddito disponibile. Il prudente Giancarlo Giorgetti che si è entusiasmato ascoltando i corni incantatori di Pontida, una volta tornato a palazzo Sella guarda i conti e si gratta il capo, bisogna stringere, ma per carità salviamo le fasce più deboli. E citiamo solo i due ministri che sudano freddo di fronte alla prossima legge di bilancio. 

La trappola della povertà è quella condizione in cui per le persone con redditi bassi o nulli viene a mancare qualsiasi incentivo a cercare un lavoro, in quanto ogni reddito addizionale sarebbe compensato da perdite di benefici sociali e aumenti delle imposte. Sembra un paradosso, ma pensiamo a chi riceve sussidi, bonus, servizi gratuiti o qualsiasi altro aiuto: nel momento in cui riscuoterà un salario, dovrà pagare le tasse, uscirà dal bozzolo assistito, rischiando di perdere i benefici acquisiti. Il Reddito di cittadinanza così come introdotto dai grillini risponde esattamente a questo modello. Secondo l’Istat la trappola in Italia passa di padre in figlio e rischia di creare una palude sociale molto difficile da bonificare. L’Avvocato del popolo alias Giuseppe Conte ha predicato per le fasce più deboli e ha razzolato con le più forti soprattutto grazie al Superbonus 110 per cento, mentre Matteo Salvini pensava ad anticipare l’uscita dal lavoro. Quota 100, per “seppellire la Fornero” (la riforma, sia chiaro) è costata cinque miliardi di euro l’anno in un paese dove solo il 10 per cento di tutti i trasferimenti monetari pubblici va a quel quinto della popolazione classificato più povero, mentre il 50 serve a pagare le pensioni. Ora il governo Meloni deve tappare i buchi del gabinetto gialloverde, ma non ha cambiato passo, ha solo ridimensionato sia il Reddito di cittadinanza sia il Superbonus, naturalmente per tutelare le fasce più deboli, come spiega Marco Osnato, presidente della commissione finanze alla Camera, deputato per Fratelli d’Italia.

Tra povertà assoluta e relativa, esclusione sociale, analfabetismo di ritorno, non è chiaro se il confine è definito dalla condizione sociale generale, nella quale rientra in modo determinante il livello di istruzione, oppure se conta soprattutto il livello di reddito. In quale fascia entrano i balneari, i tassisti, i pescatori divorati dai granchi blu, i coltivatori diretti minacciati dalla carne sintetica, gli ambulanti, i rider, i Neet che sta per Not in Education, Employment or Training, insomma i giovani che non studiano, non lavorano e non si preparano nemmeno? E il 49 per cento dei contribuenti Irpef senza un euro di reddito? In tal caso le fasce deboli si estendono alla metà degli italiani, il che contraddice persino il buon senso. “Quella soglia dei 35 mila euro di reddito annuo al di sopra del quale si è considerati ricchi e al di sotto beneficiari delle detrazioni e dei sussidi, è ancora più anacronistica – ha scritto Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera – lo scandaloso tasso di evasione (un tax gap di 99 miliardi nel 2019) non indigna più. Lo si giustifica persino”. Intanto il 42 per cento dei contribuenti copre il 91 per cento dell’intera Irpef. C’è una soglia persino più pericolosa, quella segnata dall’Isee, spartiacque che incentiva il sommerso, denuncia Alberto Brambilla. L’acronimo sta per Indicatore della situazione economica equivalente e serve a valutare lo status delle famiglie che chiedono una prestazione sociale agevolata. L’intenzione è buona, ma ha dato il via a una corsa per celare, mascherare, aggiustare affinché si conquisti l’asilo nido pubblico e gratuito o qualsiasi beneficio di uno stato sociale nel quale l’inefficienza è consustanziale al potere degli apparati. Senza parteggiare per gli imbroglioni, si capisce perché l’arte di arrangiarsi diventa il modo spesso più agevole per aggirare il bastione della burocrazia che tra tutte le fasce della società italiana è senza dubbio la più forte e inattaccabile, resistente a ogni tentativo di cambiarla. 

Sentiamo già le obiezioni: si può forse negare che i poveri siano diventati più poveri e i ricchi più ricchi? Chi non ha letto “Il Capitale”, non quello di Karl Marx che nessuno sfoglia più, ma il bestseller di Thomas Piketty? E Scampia e Tor Bella Monaca e Quarto Oggiaro? I mercatisti si foderano di prosciutto, chiusi nelle loro torri d’avorio. Ci dispiace offendere chi è animato da buoni sentimenti, ma per il momento quella forbice sociale che resta molto, troppo ampia, non s’è affatto allargata. Certo, potrà accadere soprattutto se la stagnazione si trasforma in recessione. Finora, però, quel che tutti sbandierano ai quattro venti con infondata certezza, non è successo. Secondo l’Istat, nonostante la pandemia, la quota di individui a rischio di povertà è rimasta praticamente ferma sul livello del 2019 (un quinto della popolazione). Le fasce deboli ci sono, ma le statistiche ufficiali mostrano che sono state relativamente tutelate. Gli stanziamenti per le famiglie complessivamente previsti nei vari provvedimenti di emergenza, in aggiunta ai fondi già stanziati per gli ammortizzatori sociali esistenti, sono ammontati a 33,9 miliardi di euro nel 2020 e 13,2 miliardi nel 2021. Nell’insieme, i trasferimenti sociali monetari hanno contribuito a sostenere il reddito disponibile lordo delle famiglie, in termini pro capite e a prezzi costanti, per oltre tre punti percentuali, contrastando il notevole calo dei redditi da lavoro dipendente e autonomo e delle entrate da proprietà; un ulteriore aiuto è venuto dal minor ammontare di imposte e contributi dovuto, provocando un ingorgo pieno di brutte sorprese quando si è tornati alla “normalità”. 

Non è vero che sia stato più penalizzato il sud al quale il governo in carica vuol applicare una nuova Cassa per il Mezzogiorno. Dal primo gennaio prossimo, infatti, tutto il territorio, dall’Abruzzo alla Sicilia, diventerà Zes, Zona economica speciale, ovvero assistita, un balzo indietro di oltre mezzo secolo. Si giustifica forse con un impoverimento generalizzato il ritorno della “quistione meridionale”, una regressione a fascia debole per quasi metà del territorio nazionale e oltre un terzo della popolazione? Eppure, “le stime sull’incidenza del rischio di povertà mostrano come la sostanziale stabilità nazionale sia il risultato di un sensibile aumento nelle regioni del nord compensato da una riduzione in quelle del sud, in linea con la diffusione geografica della pandemia nel 2020”, ha scritto sulla rivista Il Mulino Andrea Brandolini, l’economista della Banca d’Italia che studia la ricchezza e la povertà degli italiani. “Le vere diseguaglianze di reddito sono sociali e riguardano le famiglie con figli a carico, i giovani, i meno istruiti e i cittadini stranieri. I divari territoriali si sono invece mossi in controtendenza”. Non solo, l’assistenzialismo a pioggia finisce per riprodurre se non ampliare il fossato. La statistica è una illusione? Forse. Vale sempre il pollo di Trilussa? Può darsi. L’evidenza quotidiana ci mostra la sofferenza di chi non ha nemmeno una casa? Certo, tutto vero, ma ci sono strumenti più efficaci e pervasivi della statistica per fotografare nel loro insieme le condizioni economico-sociali del paese?

Le fasce più deboli non sono una trovata estemporanea e non vogliamo passare per cinici seguaci del darwinismo sociale. Ma guardiamoci da scribi e farisei. Citiamo ancora Brandolini: “Il dibattito sulla povertà in Italia negli ultimi settant’anni è caratterizzato da alcuni passaggi significativi: la Commissione parlamentare di inchiesta sulla miseria e sui mezzi per combatterla nei primi anni Cinquanta; il lungo periodo della Commissione Povertà, istituita nel 1984 e definitivamente soppressa nel 2012; l’impulso della Commissione europea. Ripercorrendo questi episodi dalla prospettiva specifica della misurazione statistica, emerge un legame stretto tra l’istituzionalizzazione della misura di povertà nella statistica ufficiale e il processo politico, nazionale e internazionale. Negli ultimi due decenni, ai tradizionali divari tra aree geografiche si è aggiunta una netta stratificazione della povertà per età e cittadinanza, che vede in posizione svantaggiata i minori e gli immigrati. In prospettiva, l’ipotesi nella misurazione che la distribuzione all’interno della famiglia sia eguale appare sempre meno accettabile, per le implicazioni che ha per la stima delle disuguaglianze di genere e della povertà dei bambini”. Ecco le fasce più deboli: ragazzini, migranti, donne sottomesse al giogo domestico. Emerge con chiarezza che l’intervento pubblico nonostante sia stato massiccio anche prima della pandemia, è rimasto confuso e frammentario e “la ripartizione categoriale degli interventi assistenziali denunciate dalla Commissione di inchiesta sulla miseria sono rimaste caratteristiche distintive della spesa sociale italiana, spesso accentuate, raramente scalfite dalle riforme attuate nel tempo”. Non s’è mai affermata una concezione universalistica e più inclusiva dell’assistenza sociale, come è invece avvenuto per quella sanitaria. “Sembrava che il Reddito di cittadinanza, al di là dei suoi aspetti critici, avesse finalmente risolto questo antico problema. Salvo poi accorgersi che la rete di protezione sociale italiana aveva ancora buchi vistosi, rendendo necessario il reddito di emergenza. La riforma organica, da molti auspicata fin dagli anni Cinquanta, non è ancora compiuta”. E ha ripreso il sopravvento la solita politica delle mance.

E’ caduta come una manna la pioggia di bonus che crea guerre tra poveri o supposti tali mentre tra la montagna di scartoffie (ancora tutte lì) o dalla ragnatela digitale piena di spid e pec (come mai è così facile gestire il conto in banca con il telefonino ed è così difficile accedere alla Pubblica amministrazione?), si erge il gogoliano Ispettore generale. Il bonus diventa la nuova maschera del clientelismo e la sua stagione è ben lontana dal concludersi, al di là degli annunci. Difficile calcolare quanti siano, un elenco dettagliato, ma comunque impreciso, arriva a una quarantina, in ordine alfabetico si va da A come affitto a V come verde, tuttavia contarli è quasi impossibile, ci abbiamo provato sul Foglio del 29 marzo scorso, però ne spunta uno al giorno; il governo Meloni li ha confermati quasi tutti, anzi il ministro Lollobrigida ha introdotto la carta acquisti alimentari “Dedicata a te”, senza gran successo. 

L’Italia è in buona compagnia. Il welfare state è sempre e ovunque assistenziale. Con la crisi finanziaria e poi con la pandemia è avvenuto un balzo impressionante. Dal 2008 gli Stati Uniti hanno moltiplicato per tre il debito federale. Ora ha superato i 33 mila miliardi di dollari (il 127 per cento circa del prodotto lordo annuo), ne sono stati aggiunti diecimila dal 2019, tremila nell’ultimo anno e mezzo. E stiamo parlando del paese più liberal-capitalista con uno stato sociale meno universale di quello europeo. Tuttavia il caso italiano ha le sue peculiarità. La prima è che lavora troppa poca gente (soprattutto donne e giovani). Il tasso di occupazione è salito al 61,3 per cento grazie al troppo breve boom post pandemia, ma la media europea è al 68 con l’Olanda che arriva all’80 per cento. Ci si lamenta di uno stato sociale troppo stato e poco sociale, ma chi lo paga? Oggi solo la metà della popolazione, quella che non sfugge alle tasse, domani ancora meno perché la forza lavoro si riduce a causa della crisi demografica. La seconda anomalia italiana è un sistema che teme di perdere le proprie catene, quelle che lo legano al passato.

Sotto la retorica pauperista emerge una politica che difende l’esistente, che non sostiene chi innova, chi investe, chi rischia, chi si apre al futuro. Si passa una mano di vernice sociale per coprire i ceti garantiti, ai quali viene promesso che nulla cambierà, né la concorrenza “imposta da Bruxelles”, né l’apertura alle nuove generazioni che cercano lavoro. Le fasce più deboli credono alle promesse, le fasce più protette dormono tra due guanciali. E’ il frutto di un incantamento ideologico (la destra sociale, il nazional-populismo, il grillismo) e di un calcolo cinico: un paese vecchio dove sono i vecchi a votare; dove i sindacati hanno più pensionati che lavoratori attivi, dove l’assegno Inps prevale sul salario anche nelle priorità della politica economica. La destra lo ha accettato, anzi lo ha sposato. Ma lo stesso vale per la sinistra la quale vuole un referendum contro quel Jobs act che ha favorito la nascita di un milione 800 mila posti di lavoro, dei quali un milione 330 mila a tempo indeterminato. Un contributo fondamentale per ridurre le fasce più deboli. Il referendum in difesa della scala mobile nel 1985 fu una sonora sconfitta del Partito comunista italiano il quale aveva perso il polso sociale e politico del paese, cominciò da lì il suo declino ben prima che cadesse il muro di Berlino. Maurizio Landini era già alla Fiom (metalmeccanici) in quel di Reggio Emilia. Votò anche lui, ma quella débacle deve averla rimossa. Elly Schlein allora aveva appena un mese di vita, era a Lugano in Svizzera e in Italia si è trasferita solo dopo il liceo per studiare Diritto costituzionale a Bologna dove s’è laureata. Quella disfatta della sinistra radical-conservatrice deve averla letta sui libri, ma con buona pace di Cicerone la storia è “testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, messaggera dell’antichità”, non sembra essere maestra di vita.

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