magazine
Giornalisti e presentatori contro Schlein? La prova che i girotondi non finiscono mai
Come leggere l’improvviso disamore per la segretaria del Partito democratico da parte dell’intellighenzia di sinistra? E’ semplicemente il ciclo che ha travolto i leader precedenti
Poche esperienze al mondo sono in grado di comunicarci l’intima fragilità della condizione umana quanto la rassegna stampa di un leader della sinistra. Pochi spettacoli naturali possono trasmetterci un sentimento più nitido dell’estrema precarietà della nostra esistenza e dell’infinita vanità del tutto: la caduta delle foglie in una ventosa giornata d’autunno nella campagna inglese; la fioritura dei ciliegi a Tokyo tra la fine di marzo e l’inizio di aprile; lo sbocciare dei primi talk-show settembrini tra Roma e Milano, dopo l’immancabile pausa estiva, come da poco Elly Schlein ha avuto modo di scoprire a sue spese.
Un detto molto amato dagli appassionati di arti marziali recita: “Tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il samurai”. Va detto però che nella politica italiana, e specialmente nella sinistra, all’idea di estrema precarietà esistenziale si accompagna di rado un ideale etico ed estetico così raffinato, e men che meno eroico. Alla stoica concisione del detto giapponese, che ben s’intona al concetto di una fioritura tanto rigogliosa quanto fugace, fa riscontro qui una lentissima, straziante e sommamente ingloriosa agonia, che segue generalmente di pochi mesi, qualche anno al massimo, il breve momento dell’esaltazione e dell’adorazione generale.
Meglio di ogni altro lo sa Romano Prodi, l’unico che sia riuscito nel miracolo di fare il giro completo per ben due volte: dipinto come un vecchio democristiano soporifero e inconcludente durante tutto il suo primo governo, tra 1996 e 1998 (“il curato di campagna”, “il semaforo”, “il mortadella”, per ricordare solo alcune delle definizioni più gentili), eppure rimpianto come un messia dal giorno dopo la sua defenestrazione; tornato quindi al governo tra 2006 e 2008, solo per essere nuovamente sbeffeggiato e deriso, e per le stesse ragioni di dieci anni prima, eppure subito dopo nuovamente rimpianto ed esaltato come l’unico capace di portare la sinistra alla vittoria, modello ineguagliabile di virtù civile e politica, padre della patria e stella polare su cui orientarsi per i secoli futuri. Dagli stessi commentatori.
Nessuno come lui, o meglio, come il ritratto che di volta in volta ne ha fatto la stampa progressista (ma anche comici, intellettuali, registi e scrittori), rappresenta la schizofrenia di un certo mondo di sinistra, la mutevolezza dei suoi giudizi e dei suoi umori, l’adolescenziale impulsività delle sue relazioni con la politica e la virulenza delle sue idiosincrasie.
All’estremo opposto c’è naturalmente Massimo D’Alema, cui il giro non è riuscito nemmeno una volta, perché all’intera categoria dei giornalisti (e alla più larga cerchia degli intellettuali e degli opinionisti in genere) è sempre stato tremendamente sullo stomaco. Almeno sin da quell’indimenticabile intervista a Lucia Annunziata, su Prima comunicazione, nel dicembre del 1995, a poco più di un anno dall’elezione a segretario del Pds, in cui descriveva con queste parole il suo rapporto con la stampa: “Mi sento come uno preso in mezzo da una squadretta: due mi tengono e uno mi mena. Due giornalisti ti fanno domande che non c’entrano niente con quello che hai fatto fino a due minuti prima, e sono quelli che ti tengono; il terzo ti fa la lezioncina, ed è quello che ti mena”. Fondate o meno che fossero le accuse, ed eventualmente le ragioni di animosità da parte della squadretta in questione, negli anni seguenti il rapporto non sarebbe di sicuro migliorato. D’altra parte quella stessa intervista, che pure segnò in qualche modo uno spartiacque, per non dire una dichiarazione di guerra, testimonia come il rapporto fosse già decisamente compromesso.
Pochi spettacoli possono trasmetterci un sentimento più nitido dell’estrema precarietà del tutto: lo sbocciare dei primi talk-show settembrini
Se infatti per un certo mondo di sinistra Prodi (quando era al governo) rappresentava la caricatura del vecchio democristiano, D’Alema era qualcosa di persino peggiore: l’apparatchik, il grigio burocrate senza ideali e senza sentimenti, insomma, il dirigente del Pci. Per i non pochi giornalisti e intellettuali cresciuti nei movimenti estremisti degli anni Settanta, o comunque affascinati da quel modo di concepire la politica e la società, che era anche un modo di parlare e di scrivere, non c’era nemico più acerrimo di un esponente del Partito comunista italiano. Quel partito che sulla carta avrebbe dovuto fare la rivoluzione e nella pratica si incaponiva a difendere le corrotte istituzioni della democrazia borghese (e anche il proprio insediamento, i propri consensi e il proprio potere da concorrenti assai fastidiosi, s’intende).
Paradossalmente, la fulminea ascesa e l’iniziale popolarità di quello che ai loro occhi sarebbe diventato poi l’emblema della deriva autoritaria, berlusconiana o genericamente di destra del Pd – Matteo Renzi – si spiega anche così. In un certo senso, nella prima fase, Renzi fu l’ultimo beneficiario (o forse dovrei dire il penultimo, considerando la stretta attualità) di quella lunga onda di ostilità contro i dirigenti di partito, i professionisti della politica, la “burokratija che sta alle mie spalle” contro cui si scagliava Nanni Moretti nel 2002, nel famoso intervento che avrebbe dato slancio ai girotondi, uno dei tanti movimenti di auto-contestazione della sinistra fioriti nel corso della Seconda Repubblica. Un’ostilità che si sarebbe spesso mescolata a una radicata antipatia per la politica in generale, ben prima che Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo coniassero la fortunata etichetta della “casta”, poi non per nulla divenuta simbolo ed emblema del Movimento 5 stelle. E che Renzi non esitò a cavalcare.
Solo così si può spiegare il singolare spettacolo di un leader politico oggi generalmente disdegnato come un insopportabile arrogante, ambizioso e pieno di sé, da quegli stessi opinionisti che lo idolatravano quando dichiarava umilmente di voler “rottamare” tutti i dirigenti del suo partito.
Nessuno come Prodi, o meglio, come il ritratto che di volta in volta ne è stato fatto, rappresenta la mutevolezza dei giudizi di certa sinistra
Il guaio è che una volta rottamati il vecchio gruppo dirigente e i vecchi leader, i nuovi fanno prestissimo a invecchiare, almeno agli occhi di chi li ha applauditi e sostenuti proprio per questo. Come se l’eterno sogno del grande rinnovamento non potesse mai realizzarsi. Per quanto si possa abbassare l’età anagrafica del leader di turno (fosse solo quello, Renzi è stato il più giovane presidente del Consiglio della storia repubblicana); per quanto si possano destrutturare, smantellare o semplicemente lasciare ammuffire sezioni, federazioni e comitati centrali, sostituiti dai gazebo delle primarie e dalle interviste in tv; per quanto lontano ci si possa inoltrare sulla strada dell’azzeramento dei protagonisti e dei simboli del passato, l’impressione è che non basterà mai, che quel sogno non si potrà realizzare perché è irrealizzabile, o forse semplicemente contraddittorio. Perché il leader più nuovo, più giovane, più estraneo al vecchio gruppo dirigente e alle sue deprecate correnti – e chi più di Schlein, che al momento di lanciare la sua candidatura a quel partito non era neanche iscritta, e che gli iscritti a quel partito, al primo turno delle primarie, non hanno infatti nemmeno votato (in maggioranza) – alla fin fine, una volta eletto, sarà per ciò stesso già di nuovo e sempre un rappresentante di quel partito, di quel gruppo dirigente, di quella “vecchia politica” che tanto dispiace a molti osservatori. Quasi avessero di un leader della sinistra l’immagine che gli uomini di un tempo (un brutto tempo) avevano della donna, sublime e idealizzata proprio perché esiliata dal mondo reale, pura e vergine da ogni contatto con le bassezze della realtà da cui si voleva tenerla lontana.
Ecco perché quelle stesse caratteristiche inizialmente motivo di lode sperticata diventano all’indomani della vittoria, congressuale o elettorale che sia, cioè non appena entrate in contatto con il potere, ragione di biasimo e persino di irrisione. In un attimo, l’adorabile bonomia del buon padre di famiglia diventa l’intollerabile paternalismo del vecchio trombone, il coraggio iconoclasta del giovane favoloso diventa la spregiudicatezza del solito stronzo, la genuina freschezza della normalità diventa la vuota banalità di chi semplicemente non ha niente da dire.
Nel repentino cambio di umore che caratterizza i rapporti di Schlein con la stampa non c’è insomma niente di nuovo. Ciò nonostante, molti si sono stupiti per il modo in cui di recente è stata incalzata a “Otto e Mezzo” da Lilli Gruber (“Ma chi la capisce se parla così?”), peraltro proprio mentre ripeteva quello che ha sempre detto in tema di immigrazione, che non è solo uno dei pochi argomenti su cui onestamente ha sempre detto cose piuttosto chiare e precise, ma è anche un po’ il suo cavallo di battaglia, con cui si era fatta conoscere e apprezzare sin dai tempi in cui era ancora parlamentare europea.
Non per niente, nel febbraio del 2020, Concita De Gregorio citava proprio i suoi interventi sull’immigrazione e il trattato di Dublino, quando dichiarava in tv, a proposito di Schlein: “E’ il mondo in cui io vorrei vivere, è gli occhi da cui io vorrei vedere, l’Italia sarebbe meravigliosa se fosse davvero e soltanto popolata di persone che hanno… ma non per le qualità, per la normalità, per la naturalezza… Elly è normale, o sarebbe bello che fosse normale, perché è molto competente, cioè sa sempre di cosa parla”.
Eppure, appena tre anni dopo, l’8 giugno scorso, De Gregorio scrive sulla Stampa: “Schlein è figlia, per formazione e anagrafe, della tradizione dei movimenti, del dibattito stremante e collegiale, del confronto in assemblea territoriale. Dal punto di vista del lessico padroneggia una serie di circonlocuzioni in uso appunto nei collettivi, frasi talmente generiche e larghe da contenere tutto e non dire niente. E’ quella che al convegno ascolti un’ora riempiendo il taccuino e poi non trovi il titolo…”.
Paradossalmente, fu Renzi l’ultimo beneficiario di quella lunga onda di ostilità contro i dirigenti di partito, i professionisti della politica
In questa dinamica sta forse la suprema giustizia della politica italiana: quella stessa vaghezza con cui puoi presentarti da oppositore, rispetto alla dirigenza del tuo partito come rispetto alla maggioranza di governo, non ti è consentita da leader, quando hai la responsabilità di chiarire dove vuoi portare il partito o il paese (o entrambi), e non basta più dire che così non va e l’è tutto da rifare. Se hai abusato prima di quella scorciatoia, si potrebbe pensare, è giusto che tu debba scontare poi il vantaggio indebitamente acquisito.
Il risultato però è che sempre più spesso i politici sono acclamati quando declamano discorsi vuoti per prendere facili applausi e derisi quando si sforzano di correggere il tiro. E questa è forse la suprema ingiustizia della politica italiana, specialmente a sinistra.
Forse l’apparente invincibilità di Dario Franceschini viene proprio dalla sua prematura esperienza come segretario, quando subentrò a Walter Veltroni (di cui era vice) di fatto in qualità di reggente, per pochi mesi appena, e poi, ingolosito, si candidò a succedergli al congresso, ovviamente anche lui tuonando contro “quelli che c’erano prima” (cioè, tecnicamente, lui, e nessun altro, trattandosi di partito allora appena nato) in nome del rinnovamento e della lotta contro le correnti.
Forse l’apparente invincibilità di Franceschini viene dalla sua prima sconfitta. Da allora in poi, sempre un passo indietro rispetto al ruolo di leader
Sonoramente sconfitto da Pier Luigi Bersani alle primarie nell’ottobre del 2009, da allora in poi, mantenendosi giusto un passo indietro rispetto al ruolo di leader, non ha più perso un congresso, né un giro di poltrone. In fondo è lui l’ultimo samurai del centrosinistra, l’unico che abbia trovato il modo di navigare fra le correnti senza mai farsene risucchiare, non amato dalla cultura di sinistra ma sempre al ministero della Cultura nei governi di centrosinistra, capace di scomparire e riapparire in un attimo alle spalle di avversari e alleati.
La superiorità di Franceschini è prima atletica che politica, ma la sua proverbiale prontezza di riflessi è il frutto di una più alta consapevolezza spirituale: ben sapendo che la bellezza del ciliegio in fiore è preclusa a chi aspiri alla durata della quercia, ha compiuto la sua scelta. Forse anche con qualche rimpianto.
E chissà che sotto il completo grigio, come tanti artisti marziali, non nasconda anche lui un tatuaggio in giapponese: “Tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il segretario del Pd”.