un anno di governo
I problemi di Meloni con la strategia del rinvio
La premier ha affrontato due grandi dossier come Mes e salario minimo rinviandoli. Ma ora si ripresentano in un contesto molto più difficile e una soluzione ancora non c'è
Giorgia Meloni ha trovato nel rinvio, almeno per due importanti dossier, un’ottima strategia per disinnescare le tensioni politiche. Almeno nell’immediato. Perché a breve potrebbe ritorcersi contro.
Un caso è la ratifica del Mes, che l’Italia si trascina ormai da tre anni e tre governi. Per tutta la prima metà dell’anno era diventato un argomento imbarazzante a ogni vertice europeo, con le domande della stampa e il pressing delle istituzioni dell’Eurozona: una pressione che si riverberava, sul piano interno, su una maggioranza da sempre ostile sia al Mes sia al nuovo trattato. Così Meloni ha pensato bene di affrontare la questione a luglio con una “sospensiva”, un rinvio cioè di quattro mesi, per ridiscuterne a novembre in una “logica a pacchetto”. Problema sparito dai media.
Un discorso analogo lo si può fare per la proposta che ha unito le opposizioni: il salario minimo. Quando la campagna dei partiti di minoranza (eccetto Iv) per una soglia minima legale di 9 euro l’ora stava montando, riscuotendo consensi anche al di fuori dell’elettorato di centrosinistra, la premier con un’abile mossa in pieno agosto ha prima convocato le opposizioni per un dialogo e poi coinvolto il Cnel per elaborare in due mesi una proposta per alzare i salari bassi (che non necessariamente sarà il salario minimo legale). In questo modo, Meloni non si è dimostrata insensibile alla tematica del lavoro povero – in un contesto di inflazione che erode il potere d’acquisto delle famiglie – e ha guadagnato 60 giorni depoliticizzando la campagna sul salario minimo trasformandola in una questione tecnica: le opposizioni hanno lanciato una campagna firme, ma è evidente che l’“estate militante” di Elly Schlein e Giuseppe Conte è stata depotenziata.
La strategia del rinvio ha indubbiamente prodotto per Meloni due successi tattici, ovvero temporanei, ma non ha affrontato nessuno dei due problemi. Che senza una soluzione, o comunque una decisione, rischiano di ripresentarsi aggravati in un contesto politico ed economico più complicato. Il primo caso è proprio quello del salario minimo.
Il presidente del Cnel, Renato Brunetta, sta lavorando al dossier anche perché si tratta di un’occasione storica per rilanciare un organo costituzionale molto bistrattato. Ma il tempo e il contesto politico non giocano certo a suo favore. Anche perché il nuovo Consiglio del Cnel si è insediato solo ieri e i termini per consegnare la proposta scadono attorno al 10 ottobre. “Sono puntuale – ha detto Brunetta – entro metà ottobre consegneremo al presidente del Consiglio una proposta, un documento, un dossier o un impianto normativo articolato, possibilmente unanime e condiviso da tutte le componenti qui rappresentate”. Nonostante l’impegno e l’ottimismo di Brunetta, l’obiettivo è arduo perché al momento il Cnel, formalmente, ha prodotto solo un lavoro istruttorio e una nota metodologica. E ottenere su una proposta un consenso unanime, o quantomeno ampio, è quasi impossibile viste le ampie divergenze di opinione tra datori e sindacati, ma anche tra sigle sindacali (si pensi solo alla Cisl contraria al salario minimo e alla Cgil che boicotta il lavoro del Cnel). Ciò vuol dire che se a metà ottobre non ci sarà una proposta vera o ci sarà solo un documento annacquato, la campagna sul salario minimo può riprendere vigore in una situazione più agevole per le opposizioni e più difficile per il governo: con l’economia in rallentamento, una legge di Bilancio con pochissime risorse e uno sciopero generale già annunciato dalla Cgil.
Qualcosa di analogo si presenta con il Mes. Per quanto il tema produca sempre tensioni nella maggioranza, affrontare la ratifica del trattato in primavera sarebbe stato molto meno problematico per il governo. Meloni infatti si ritroverà a dover gestire la questione a novembre, in piena sessione di bilancio e con la scadenza del 31 dicembre 2023, che è sia il termine per la chiusura della legge di Bilancio sia per l’introduzione del backstop bancario, ovvero la principale innovazione del nuovo Mes, la cui introduzione è prevista per il 1 gennaio 2024. Ciò vuol dire che si intensificheranno le pressioni degli altri stati membri dell’Eurozona, e delle istituzioni europee, che finora hanno pazientemente aspettato i tempi politici dell’unico paese che manca all’appello. Ma il problema è che anche il contesto politico interno sarà più ostico: in piena campagna elettorale per le europee, certamente la Lega di Matteo Salvini sarà ancor meno propensa a ratificare il Mes visto che si sta presentando agli elettori proprio come la vera destra che si oppone a Bruxelles in alternativa alla destra di Meloni più incline al compromesso.
A peggiorare il quadro c’è il fatto che, contemporaneamente, Meloni dovrà trattare in Europa oltre che sul disavanzo della prossima legge di Bilancio anche sulla revisione del nuovo Patto di stabilità. E nella logica “a pacchetto”, che proprio Meloni ha a lungo evocato per giustificare il rinvio, la mancata ratifica del Mes rischia di trasformarsi da arma di ricatto nei confronti dell’Europa nella mancanza che le controparti europee rinfacceranno all’Italia, indebolendo la leva negoziale del governo. L’opposto di ciò che immaginava o propagandava Palazzo Chigi. Con la strategia del rinvio, insomma, Meloni ha comprato qualche mese sul mercato della politica ma rischia di dover ripagare tutto e con gli interessi molto alti.