Il governo punta su famiglia e natalità, ma con misure bandierina a termine
Archiviato il taglio dell'Iva sull'infanzia, l'esecutivo punta sulla decontribuzione totale per le donne con due figli: un bonus per un anno regressivo che andrà di più a chi meno ha bisogno. Perché non potenziare uno strumento strutturale, universale e progressivo come l'Assegno unico?
Il governo ha deciso di puntare sulle politiche per la famiglia e per la natalità. Ed è un obiettivo meritorio, dato che l’Italia ha un’enorme crisi demografica che è un problema per la crescita e per la sostenibilità del debito pubblico. L’aumento del tasso di fecondità non risolve da solo il problema, perché serve molto tempo prima che si manifestino gli effetti, ma è sicuramente un elemento fondamentale. A questo obiettivo politico corrisponde anche un impegno economico visto che, con circa un miliardo investito, sulla natalità la ministra Roccella è insieme al ministro Schillaci sulla sanità l’unica a non aver preso “schiaffoni” dal Mef di Giorgetti.
C’è però un problema negli strumenti scelti finora dal governo Meloni, che a volte sembrano pensati più per avere effetti di comunicazione che per incidere nella realtà. Ne è un esempio il taglio al 5% dell’Iva sui prodotti per l’infanzia, introdotto nella scorsa legge di Bilancio e archiviato in questa, perché “purtroppo è stato nella stragrande maggioranza dei casi assorbito da aumenti di prezzo e quindi non penso che valga la pena di rinnovare questa misura”, ha detto la premier Giorgia Meloni. L’idea del ministro delle Imprese Urso era che dopo la riduzione dell’Iva il ministero attraverso il “monitoraggio di Mister Prezzi” avrebbe controllato che il beneficio si trasferisse ai consumatori. Ci avevano già provato in Urss e non aveva funzionato, è andata male anche con Urso. Semplicemente perché l’incidenza fiscale, ovvero come si distribuisce un taglio di imposte tra consumatori e produttori dipende dall’elasticità di domanda e offerta, non da un decreto.
Ora il governo ha lanciato un’altra misura, anch’essa valida per un anno: la decontribuzione totale per le lavoratrici con due figli. Ma le madri dipendenti con redditi medio-bassi usufruiscono già dello sgravio contributivo generale di 7 punti (sotto i 25 mila euro di reddito) o di 6 punti (sotto i 35 mila) prorogato in questa stessa manovra, quindi per loro il beneficio è di solo 2-3 punti (dato che i contributi a carico dei lavoratori sono 9 punti). ovvero poche decine di euro al mese. Mentre per le madri con redditi più alti (forse ci sarà un tetto a 70-80 mila euro) il beneficio sarà della totalità dei contributi (9 punti) ovvero centinaia di euro al mese. Il meccanismo è quindi regressivo: l’incentivo va paradossalmente di più a chi meno ne ha bisogno. Nessuna donna pensa di fare il secondo figlio per avere 20 euro al mese per un solo anno. Per giunta dalla decontribuzione sono escluse le lavoratrici non dipendenti, ovvero autonome o disoccupate. È come se il governo, archiviato il flop del taglio dell’Iva, avesse scelto una nuova bandierina da poter sventolare nella gara della comunicazione politica.
Per favorire la natalità servirebbe, invece, una misura strutturale (che dia cioè garanzia di persistere nel tempo e non di durare l’arco di una manovra in deficit), universale (che vada a tutti, indipendentemente dal rapporto di lavoro e anche dal sesso, si pensi ad esempio al caso di un vedovo con due figli) e progressiva (ovvero tanto più intensa quanto più basso è il reddito familiare e più alto il numero di figli). È esattamente l’identikit dell’Assegno unico e universale, una politica che si è dimostrata efficace e che lo stesso governo Meloni aveva deciso di potenziare nella scorsa legge di Bilancio. Perché non proseguire su quella strada anziché inventarsi nuove misure a termine?