contro le Ambiguità progressiste
"Non si può non vedere il legame tra imperialismo russo e l'attacco a Israele", dice Paolo Repetti
"Tenere lo sguardo fisso sui fatti, per non cedere all’irrazionale davanti all’inaudito. In questi giorni di atrocità e paura per gli ebrei, sarebbe utile ricordare le parole di Primo Levi: abbiamo il dovere di restare umani per raccontare”. Intervista all'editore e scrittore
Tenere lo sguardo fisso, resistere almeno un minuto con gli occhi aperti su quello che è successo il 7 ottobre in Israele: si è capaci di farlo? Riescono a farlo le persone che in piazza o sul web scandiscono slogan pro Hamas, pur commemorando magari il giorno della Memoria ogni anno, come cittadini o attivisti di associazioni e forze politiche democratiche e progressiste? Paolo Repetti, scrittore, editore, direttore di Einaudi Stile Libero e autore di “Esercizi di sepoltura di una madre” (ed.Mondadori), libro in cui fotografa vita e lessico di una famiglia allargata ebreo-cattolico-atea, ha provato a fare un piccolo esperimento con due quindicenni (sua nipote – parte ebrea della famiglia – e un compagno di scuola della stessa, critico verso Israele). Dopo aver letto, qualche giorno fa, il reportage del direttore di Repubblica Maurizio Molinari da Israele, quello in cui, dice Repetti, “si racconta in modo fattuale lo scempio avvenuto e la reazione di una nazione raggelata, impreparata psicologicamente al risveglio dell’incubo Shoah, dopo il pogrom del 7 ottobre”, lo scrittore ha sottoposto quelle pagine ai due ragazzi: “Alla loro attenzione, ma soprattutto alla loro capacità di reggere il racconto del massacro di ebrei inermi casa per casa, prima di andare a cercare sollievo all’angoscia in una causa scatenante”.
Tenere fisso l’occhio è difficile, dice Repetti, “come se si cedesse all’irrazionale di fronte all’inaudito”. I due ragazzi hanno trovato sollievo “l’uno cercando una qualche responsabilità di Israele, partendo dal governo Netahyahu e poi andando a ritroso nella storia; l’altra, mia nipote, chiedendosi ‘che cosa abbiamo fatto per meritarci questo?’, come a volersi liberare dall’angoscia introiettando un senso di colpa. E’ accaduto anche in passato: c’era chi, davanti alle prime deportazioni, diceva ‘questo è un castigo di Dio’”. Dall’America all’Europa, oggi, nelle università, nelle piazze, in alcune istituzioni internazionali, c’è però chi sembra volerlo voltare, lo sguardo. Lo denuncia anche un appello di intellettuali progressisti israeliani, impegnati per la pace ma colpiti da “una tendenza preoccupante”, scrivono, “nella cultura politica della sinistra globale”. L’appello, promosso, tra gli altri, dallo scrittore David Grossman e pubblicato da Micromega.net, è una lettera aperta contro quella che viene chiamata “l’insensibilità morale” di una parte degli ambienti progressisti, specie americani, che “hanno reagito con indifferenza a eventi orribili e talvolta hanno persino giustificato le azioni di Hamas o si sono rifiutati di condannare la violenza, sostenendo che gli stranieri non hanno il diritto di giudicare le azioni degli oppressi”.
Che cosa dire, che cosa fare? “Io ormai non uso più l’argomento Shoah”, dice Repetti, “davanti a chi, pur non apertamente antisemita, è pregiudizialmente ostile. Non lo uso perché spesso la risposta è, anche da parte di intellettuali liberal, ‘ancora con la Shoah? , non potete andare avanti in eterno’. Ma stavolta è diverso: una carneficina come quella del 7 ottobre, condotta con una forte connotazione razziale da sicari jihadisti, con l’obiettivo di uccidere e rapire ebrei indifesi, non può non riportare alla mente gli incubi del passato. E’ necessario prendere posizione e anche sottolineare alcune contraddizioni rispondenti a un’ideologizzazione che ha reso sempre più sottile la membrana tra antisionismo e antisemitismo: si va in piazza per solidarietà il 16 ottobre, anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma del 1943, e poi però, il giorno dopo, si manifesta pro Palestina con scritte ‘via i nazisti dal ghetto’. Per non dire della gente che inneggia alla foto di Anna Frank con la kefiah. Io continuo a vederci un percorso diretto a ritroso con la Shoah e non, come molti, un legame con la liberazione della Palestina”. Esiste un antidoto, per questo tipo di ambiguità? “Intanto bisognerebbe evitare”, dice Repetti, “di trasformare il giorno della Memoria in sentimentalismo e retorica, riportandolo a una maggiore razionalità. Poi bisognerebbe affinare la capacità di penetrazione culturale, per fare da argine all’automatismo per cui gli ebrei vanno bene quando sono vittime, ma non quando difendono il proprio territorio e i propri cittadini; e per contrastare l’argomento ‘è colpa dell’Occidente’: si pensi alla cancel culture e all’idea manichea degli stati totalmente buoni e degli stati totalmente cattivi”.
Terzo elemento: “Non si può non vedere”, dice Repetti, “il legame tra attacco imperalista russo all’Ucraina e attacco jihadista a Israele, con l’Iran sulla scena e nel ruolo di finanziatore di cellule neanche tanto dormienti. In questo quadro, ripeto, prendere posizione è necessario, il che non significa essere acritici verso Israele, ma riconoscere intanto chi è l’aggredito e chi l’aggressore”. Vengono in mente le immagini dell’altra piazza: quella iraniana che combatte il regime, con le madri delle ragazze picchiate a morte per un velo non messo che si fanno arrestare, e i padri che allo stadio scandiscono slogan pro Israele. “Un argomento può essere questo: se state con gli studenti iraniani, non potete non difendere l’Occidente e Israele. Ma purtroppo la narrazione Davide contro Golia ha una presa drammaturgica enorme: gli Usa, la potenza bastarda che aiuta Israele contro i poveri oppressi. Per scardinarla serve più studio, ma anche più comunicazione. Israele in primis può sovvertire quella narrazione, sia dal punto di vista culturale, trovando le parole per far passare il punto di vista opposto, sia da quello politico-militare, sulla linea Biden: il punto è difendere i confini, non vendicarsi. E, in questi giorni di atrocità e paura per gli ebrei, sarebbe utile ricordare le parole di Primo Levi: abbiamo il dovere di restare umani per raccontare”.