L'Italia fra Israele e mondo arabo. La politica “dei due forni” ha resistito per 50 anni. Ora è finita
Teorizzata da Andreotti e anche da Moro, ebbe come protagonista assoluto Enrico Mattei. Il ruolo di Bettino Craxi a Sigonella, l’antiamericanismo, la ricerca dello spazio vitale
La metafora si deve a Giulio Andreotti, Aldo Moro la perfeziona, ma il vero maestro panettiere, colui che ha impastato l’acqua del Mediterraneo e il grano della Russia per cuocerli sulle sabbie del Sahara si chiama Enrico Mattei. Quando Andreotti disse che “per acquistare il pane preferisco due forni”, intendeva quello di destra e quello di sinistra. A partire dai primi anni 70 Moro ha esteso il precetto alla politica estera: Roma e Tripoli, Bruxelles e Istanbul, Washington e Mosca. Intanto Mattei aveva anticipato tutti. Dopo i giri di valzer dell’Italia liberale, dopo la quarta sponda e il sogno del piccolo impero, un’altra prova di astuzia velleitaria segna le classi dirigenti italiane. La tattica dei due forni (o dei due binari come preferisce il linguaggio diplomatico) è durata oltre mezzo secolo pur tra tanti zigzag, adesso il governo Meloni deve tirar giù le saracinesche: con l’invasione russa dell’Ucraina Mosca è finita su un binario morto, con l’attacco di Hamas a Israele si chiude anche il negozio mediorientale. Non sarà facile. Il pendolo tra Il Cairo e Tel Aviv, la paura di una “nuova Lepanto” evocata da Guido Crosetto, “il ponte” tra cristianesimo, ebraismo, islam del quale ha parlato Antonio Tajani, ricordano vecchie sirene. I rischi per la sicurezza si sono già visti in Belgio, l’attentatore era un lupo, speriamo solitario. Ha ucciso due tifosi della Svezia, là dove si brucia il Corano, tuttavia i suoi bersagli erano tutti gli infedeli. Anche in Italia esistono cellule dormienti (una è stata scovata a Milano pochi giorni fa). Gli italiani dovranno deporre il mandolino del capitano Corelli. Il pane cotto in due forni ha un acido sapore di lievito andato a male.
La bottega del terrore
Aperto dopo la Guerra dei sei giorni nel giugno 1967, il bazar non si è mai chiuso. Israele allora riuscì a spezzare la morsa di Egitto, Siria e Giordania, sostenuti da Iraq, Arabia Saudita, Libano e fomentati dall’Unione sovietica, si impadronì del Sinai, di Gaza e della Cisgiordania, cambiò per sempre i rapporti di forza. I palestinesi, delusi, abbandonati anche dai “fratelli nell’islam” che avevano promesso loro l’impossibile (l’annientamento di Israele), si lanciarono in una campagna terroristica in tutta Europa. Ma l’Italia repubblicana continuò a perseguire una politica filo araba. Per paura, per ragioni economiche, per un riflesso da “quarta sponda”, per la convinzione che il Mediterraneo e l’est Europa sono i due principali campi da gioco, ancor più mentre Alcide De Gasperi spinge il paese verso l’Europa occidentale e l’America. “La diplomazia pro araba e pro palestinese – sostiene Sergio Romano – gode di larghi consensi: piace alla sinistra che si ostina a rappresentare il conflitto arabo-israeliano come l’ultima guerra dell’imperialismo, piace ai nazional-populisti pronti a impugnare una variante pacifica della spada dell’islam, piace agli uomini d’affari e alla Santa Sede che in cuore suo non ha mai accettato la nascita dello stato israeliano”. Va ricordato che alla fine degli anni 60 l’Italia era il principale partner economico dell’Egitto, appoggiava l’indipendenza dell’Algeria, scavava pozzi in Libia, sotto la guida di Enrico Mattei.
I piani di Mattei
Con il salvataggio dell’Agip che gli alleati vincitori volevano chiudere e la nascita dell’Eni sotto l’egida di Amintore Fanfani, con la Dc sceglie l’industria di stato come pilastro del suo potere, politica e affari si intrecciano e si alimentano a vicenda. Scrisse Franco Rodano, la mente dei catto-comunisti, morto proprio 40 anni fa: “Questo statalismo – ne è mallevadore Fanfani – trasforma nel beneficio di manomorta di una fazione le aziende salvate dalla catastrofe nel 1933, col denaro pubblico”. Vicino a Giovanni Gronchi che diventerà presidente della Repubblica nel 1955, gran navigatore politico, creatore della Base, una corrente Dc, fascista per convenienza e poi ex partigiano bianco amico dei rossi (Luigi Longo in particolare), tassista dei partiti che previa tariffa lo portavano dove voleva, Enrico Mattei segue una sorta di terza via neogollista tra gli Stati Uniti e l’Unione sovietica simile a quella di Amintore Fanfani, l’uomo che crea le Partecipazioni statali. Nel 1958 in una intervista ad Arthur Sulzberger, direttore e proprietario del New York Times, Mattei si lancia in una delle sue tirate: “Personalmente sono contro la Nato e per il neutralismo. Noi italiani non abbiamo nulla da guadagnare dalla Nato. Io sono antiamericano”. Ce l’ha sempre avuta con le Sette sorelle dalle quali è stato ostacolato, le ha sfidate con il suo schema di accordo con i paesi produttori: 75-25, un quarto di profitti per l’Eni, il resto tra royalty e utili a chi possiede gas e petrolio. Oggi che si parla di “piano Mattei” si dimentica di ricordare che il piano di Mattei (e di Fanfani) coincideva con la velleità di collocare l’Italia a cavallo dei due blocchi alimentando con un accurato do ut des le velleità di un Terzo Mondo che diventava sempre più antiamericano e filosovietico. I National Archives di Washington hanno pubblicato una serie di documenti che esprimono le preoccupazioni degli Stati Uniti che marcavano stretto il “cavallo pazzo” italiano. E’ vero che l’ambasciatrice Claire Boothe Luce era una sorta di portavoce del business a stelle e strisce e sosteneva concretamente i partiti di destra, ma secondo Lester Simpson, capo della Cia a Roma, i “circoli petroliferi italiani ormai stretti attorno all’Eni perseguono non solo i loro obiettivi economici, ma fanno parte di una evidente politica antiamericana a favore del mondo arabo e dell’Unione sovietica”. L’informativa di Simpson è piena di gossip su come Mattei sia riuscito a entrare nella resistenza “quando era chiaro che gli alleati avrebbero vinto pagando cinque milioni di lire a un partigiano della Dc”. Ce n’è anche per la moglie, la ex ballerina viennese Margherita Paulas detta anche Greta, “amante di un capitano austriaco che era un ufficiale molto importante nella SD tedesca”, cioè il servizio spionistico delle SS. C’è vero livore contro l’Eni diventata “uno stato nello stato” con i suoi politici di riferimento finanziati con un via vai di valigette e sostenuti dal giornale di Mattei, Il Giorno, come scrive l’Outlook on Italy del 13 giugno 1961. Ciò alimenta tutti i complottismi pasoliniani sull’incidente aereo del 27 ottobre 1962 in cui perse la vita Mattei. Mario Pirani, fiduciario presso il governo provvisorio algerino, ha ricordato che l’azienda petrolifera assicurava i “passaggi” in Europa del Fronte di Liberazione. Italo Pietra che ha diretto Il Giorno dal 1960 al 1972, in una biografia di Mattei ben fatta e simpatetica, scrive: “Grandi vedute; programmi seri; ma i rientri sono molto modesti. Le ricerche nel sud marocchino costano tanto e non approdano a niente. Dall’Iran e dal Sinai arriva poco rispetto alle speranze”. L’Eni s’indebita e Pantalone paga.
La grande paura
La prima azione palestinese in Europa è del luglio 1968 e parte dall’Italia con il dirottamento di un volo El Al decollato da Fiumicino e diretto a Tel Aviv. Molti governi europei, per esempio la Francia e l’Austria, aprono un dialogo con alcuni settori della dirigenza palestinese. Non si tratta di operazioni illegali o da “servizi deviati”, bensì di una scelta politica tutto sommato trasversale. Nell’autunno 1971, in un documento scovato dalla storica Valentine Lomellini e proveniente dall’Aipe, l’agenzia di spionaggio del Viminale, si accenna che una parte dei fondi segreti del ministero degli Esteri, allora guidato da Moro, “servono a finanziare le attività della resistenza palestinese”. La questione dei fondi si riapre con protagonisti Craxi e Berlusconi nel 1991. Il denaro passa dal Lussemburgo attraverso la società All Iberian che fa capo alla Fininvest. Al processo si è parlato di 22 miliardi di lire girati al Psi, secondo un’altra tesi la triangolazione finiva a Tunisi. La posizione filo palestinese del leader socialista viene confermata dal suo consigliere diplomatico Antonio Badini secondo il quale “la sua azione da capo del governo prese le mosse dalla amara convinzione che, sul piano dell’etica politica, fosse Israele a ostacolare realmente il processo di pace sulla base del principio terra contro pace, mentre Arafat forniva un alibi prezioso. Dunque la sua politica si concentrò sul dialogo serrato e critico con Arafat”. Più che dialogo, un sostegno concreto. E’ servito ad allontanare la minaccia terroristica, come si dice spesso?
Dall’assalto di Settembre Nero agli atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco nel 1972, al primo grande attentato all’aeroporto di Fiumicino, messo a segno il 17 dicembre 1973 e costato la vita a 32 persone, il terrorismo palestinese compie un salto di qualità e comincia ad avere dietro le spalle il sostegno di uno stato: la Libia del colonnello Gheddafi salito al potere nel 1969. Eppure nel gennaio 1974, l’Italia riceve con tutti gli onori il primo ministro libico Abdessalam Ahmed Jallud. Il governo guidato da Mariano Rumor, il quale lo aveva preso da Andreotti e lo passerà poco dopo a Moro, è sotto la mannaia della crisi petrolifera scatenata dall’Opec in risposta alla guerra dello Yom Kippur. Roma vuole il petrolio libico e tutto il resto passa in secondo piano. Due anni dopo Gheddafi viene chiamato a salvare i conti della Fiat con la mediazione di Andreotti. Intanto nei campi palestinesi s’addestrano le Brigate Rosse.
L’imbroglio di Sigonella
E’ Ronald Reagan a mettere in discussione la politica delle due sponde, ma la doppiezza rimane come dimostrano il sequestro della nave italiana Achille Lauro. Poco dopo la mezzanotte di venerdì 11 ottobre 1985 un Boeing 737 della Egyptair atterra nella base aerea di Sigonella in Sicilia. Trasporta passeggeri molto speciali: quattro esponenti del Fronte popolare di liberazione della Palestina, ala radicale dell’Olp di Yasser Arafat, insieme al capo della formazione guerrigliera Muhammad Zaydan, nome di battaglia Abu Abbas. I quattro avevano sequestrato il 7 ottobre la nave da crociera italiana Achille Lauro al largo dell’Egitto, l’altro è ufficialmente il mediatore incaricato di risolvere la faccenda direttamente da Arafat. Sono diretti a Tunisi, al quartiere generale dell’Olp; per loro è pronto un salvacondotto italiano, a condizione che non abbiano commesso altri reati a bordo della nave, mentre Abu Abbas è protetto da un passaporto egiziano. Ma nei cieli del Mediterraneo caccia americani intercettano il 737 e lo spingono verso la Sicilia dove ad accoglierlo ci sono i carabinieri e i ranger della Delta Force gli uni contro gli altri armati. Bettino Craxi, capo del governo di Roma, pretende che i dirottatori siano processati in Italia. Quanto al “mediatore” bisognava rispettare la sua immunità diplomatica. E’ una notte drammatica, si rischia la peggiore frattura tra Italia e Stati Uniti, Craxi chiama la Casa Bianca e affronta Ronald Reagan il quale, quando in Italia è ormai l’alba, sembra cedere. Ma non è finita, gli americani chiedono l’estradizione di Abu Abbas. La giornata passa tra tira e molla, i quattro terroristi operativi vengono consegnati alla magistratura di Siracusa, restano il capo del Fplp e un suo compagno. Alle 23 il Boeing decolla verso Roma con i suoi ospiti illustri, ma un F14 a stelle e strisce lo segue e ingaggia un vero e proprio duello aereo: Reagan non molla. All’aeroporto di Ciampino un secondo velivolo Usa finge un atterraggio di emergenza e cerca di bloccare il 737 egiziano. A quel punto, con una manovra ben orchestrata, Abu Abbas viene caricato su un vettore jugoslavo e scompare. “Decollò verso altre trame e altri crimini con sollievo del governo italiano cui faceva da contrappeso il furore del governo americano”, scrisse Indro Montanelli. Perché non era un onesto sensale, ma l’organizzatore dell’intera operazione Achille Lauro. E a bordo della nave era stato ucciso un cittadino americano, Leon Klinghoffer, ignaro turista in carrozzella. A palazzo Chigi sapevano? Forse non all’inizio, venerdì però era già tutto chiaro. Abu Abbas, condannato all’ergastolo in contumacia, ha continuato trame e crimini ed è stato ucciso nel 2004 in Iraq durante l’invasione americana. La notte di Sigonella fu “l’evento che restituì orgoglio all’Italia” secondo Craxi. Lo applaudirono da destra a sinistra, solo i repubblicani guidati da Giovanni Spadolini si dimisero dal governo. Batté le mani l’Unità, anche se dentro l’organo del Pci e nel partito stesso i moderati sollevarono almeno il sopracciglio.
Alla corte del Colonnello
La linea del governo convince le frange più feroci del terrorismo palestinese che l’Italia sia il ventre molle d’Europa. Il 17 dicembre dello stesso anno ecco un secondo attentato all’aeroporto di Fiumicino che provoca 19 morti e 138 feriti. La mente in questo caso è Abu Nidal, uscito da una costola di Arafat. Il 15 aprile 1986 Gheddafi riesce a salvarsi grazie proprio a un avvertimento proveniente da Craxi dall’attacco mirato americano (l’Operazione El Dorado Canyon), deciso in risposta all’attentato contro la discoteca La Belle di Berlino ovest. Per ringraziamento il Colonnello tirò due missili Scud su Lampedusa senza provocare danni né reazioni dal governo italiano. Il rapporto con il dittatore libico rimane stretto e persino ossequioso fino al 2011 quando viene detronizzato. In tanti, e non solo a destra, lo rimpiangono ancora e maledicono francesi e inglesi che lo hanno voluto morto. Nemmeno i misteri di Ustica con l’esplosione del Dc9 dell’Alitalia nel 1980 hanno fatto cambiare rotta. Adesso è Giuliano Amato che, mezzo secolo dopo Spadolini, ripete: “Scoprite il giallo del Mig libico abbattuto e caduto sulla Sila per trovare la verità”. L’11 settembre 2001 allenta, ma non spezza l’asse filoarabo. L’Italia si schiera con gli Stati Uniti senza far guerra all’Iraq, mentre Tareq Aziz, il ministro degli esteri di Saddam Hussein, continuava a fare la spola con Roma. Può valere il vecchio adagio che gli affari sono affari? Certo che vale, gli affari ci sono anche con Gaza, nonostante Hamas. Gli scambi con l’insieme dei territori palestinesi non fanno gran numero, meno di 40 miliardi di euro l’anno, ma sono in crescita del 20 per cento. Poi arrivano gli aiuti (quasi 700 milioni di euro da parte della Ue a tutte le autorità palestinesi senza distinzioni).
A Mosca a Mosca
Gli affari alimentano da sempre anche il forno di Mosca, pure ai tempi dell’Unione sovietica, e lo schema si replica oggi con una sorta di riflesso pavloviano. Nel 1966 viene firmato con il governo sovietico l’accordo per costruire una fabbrica della Fiat a Togliattigrad. E’ l’ultimo colpo di Vittorio Valletta che, da sempre filoamericano (Zio Sam e Palmiro Togliatti lo salvarono dall’epurazione nel 1945) ottiene il nulla osta dalla Casa Bianca guidata da Lyndon Johnson. Vent’anni dopo è Gianni Agnelli a innamorarsi di Michail Sergeevic Gorbaciov tanto che, una volta detronizzato da Boris Eltsin, diventa editorialista de La Stampa. L’uomo della Glasnost piace agli imprenditori e ai banchieri che da tempo fanno affari con i sovietici, piace ai cattolici, piace ai politici, ma piace anche al popolo. Se i governi italiani sono stati fin dall’inizio quelli più favorevoli al nuovo corso moscovita, è anche perché hanno seguito gli orientamenti maggioritari dell’opinione pubblica. E dei poteri economici che hanno costruito una loro diplomazia parallela capace di influenzare quella ufficiale. Il gas e il petrolio russo non arrivano solo con i patti strategici stretti con Gazprom nel 2006 durante il governo Berlusconi, ma risalgono anch’essi all’Eni di Mattei, in piena èra sovietica, e sono stati l’altro grande punto di attrito con gli Stati Uniti.
La diplomazia del sud est
“Per trent’anni, dalla presidenza Gronchi alla battaglia degli euromissili – scrive Sergio Romano – l’obiettivo che il governo italiano aveva continuamente inseguito era duplice: il massimo di sicurezza all’ombra della protezione americana e il massimo di autonomia nei rapporti con l’Urss e l’est europeo”. Una tattica seguita anche ben dopo gli anni 80, fino ad abbracciare Vladimir Putin e sognare di farlo entrare nella Nato. E’ stata chiamata la grande operazione di Silvio Berlusconi con gli accordi raggiunti nel 2002 durante il vertice Nato a Pratica di Mare tra George W. Bush e lo stesso Putin per creare un consiglio congiunto. Intanto il presidente russo faceva assediare Grozny e un anno dopo arrestava Mikhail Khodorkovsky l’oligarca oppositore, in Ucraina sosteneva l’alleato Viktor Yanukovych poi rimosso da una sentenza della Corte suprema per aver imbrogliato nelle urne. Sempre in quel 2004 altri sette paesi che erano stati sotto lo stivale sovietico per oltre mezzo secolo hanno deciso di seguire Polonia, Ungheria e Repubblica ceca che fin dal 1997 avevano aderito alla Nato. Il Putin del 2002 e quello del 2004 erano davvero così diversi? Agli storici la soluzione del quesito che oggi divide l’Italia dove il partito filorusso resta ampio e trasversale.
Sarebbe ingeneroso sostenere che le due sponde, quella sud e quella est, sono state soltanto il riflesso di una politica estera velleitaria. L’Italia repubblicana si è sentita stretta in una morsa: da un lato non c’erano alternative all’atlantismo e all’europeismo, dall’altra sapeva di essere un vaso di coccio e trattata come tale. Nel Mediterraneo aveva uno status ben diverso, anche al di là della retorica sul Mare Nostrum. Quanto al blocco sovietico, quando il cancelliere socialdemocratico Willy Brandt lancia la Ostpolitik, gli italiani colgono l’occasione per mettere a frutto i loro precedenti legami. In fondo la stessa Togliattigrad che ha portato con sé un flusso di interessi economici, era figlia della distensione tra i due blocchi interrotta dal giro di vite brezneviano e ripresa con la Perestrojka, nella beata illusione di cambiare il regime sovietico, certo non senza scosse, ma senza un collasso rovinoso anche per l’Italia. Insomma, l’idea di fondo era bilanciare un ruolo debole e tutto sommato subalterno a nord con una recita da primattore sui palcoscenici del sud e dell’est. Quella aspirazione non è cambiata. Bisogna riconoscere che c’è qualcosa in più del ruolo da honest broker e qualcosa di diverso dal paradigma geopolitico basato sulla ricerca dello spazio vitale, ma allora l’Italia deve diventare una vera sub-potenza regionale. Il paese ha bisogno di consolidarsi all’interno e non solo sul piano economico, occorre raggiungere una vera stabilità politica su basi democratiche, modernizzarsi fino in fondo con riforme strutturali a cominciare dalla pubblica amministrazione e dal fisco.
L’Italia in parte si è riformata, ha costruito un welfare state spesso generoso (sanità e pensioni soprattutto), ma lo ha fatto a debito e ha lasciato agli altri la sua sicurezza, perché troppo costosa in denaro e in consenso. Dunque, alla ricchezza economica che l’ha portata tra i primi dieci paesi industrializzati, non corrisponde una equivalente forza politica. E questo a sua volta genera un colpo di coda che mette in discussione anche la vita economica del paese. “Fatemi buona politica e io vi darò una buona finanza”, sembra rivolto all’Italia quel che diceva al suo governo Joseph-Dominique Louis, il ministro che favorì l’ascesa della borghesia nella Francia della Restaurazione e di Luigi Filippo. Le spese per la difesa raggiungeranno il 2 per cento del pil solo nel 2028, dunque i due forni si chiudono perché manca il pane? Il rischio che la doppiezza si riproduca quasi per inerzia esiste, lo dimostrano i patti scritti dalla Lega di Matteo Salvini con il partito di Vladimir Putin e del Movimento 5 stelle di Beppe Grillo e Giuseppe Conte con la Cina di Xi Jinping. Né Salvini né Grillo & Conte hanno mai fatto marcia indietro. Il leghista è al governo e impiomba Giorgia Meloni che guida una svolta decisamente filo americana, i pentastellati sono fuori e condizionano l’opposizione, alimentando le ambiguità del Pd e le incertezze di Elly Schlein. Sarà ancora la forza degli eventi a determinare le scelte della debole politica estera italiana?