L'editoriale dell'elefantino
Le piazze per il cessate il fuoco sono le piazze dei guerrafondai
Le cose giuste spesso non sono compassionevoli. A dispetto delle folle che gridano Not In My Name, bisogna snidare i killer dell’islamismo politico e colpire i terroristi dove si nascondono per conseguire l’obiettivo della sicurezza e della pace
Se la Grand Central Station di New York e la piazza di regime a Istanbul, agli ordini di Erdogan, si riempiono nello stesso giorno di folle che gridano Not In My Name, questo che cosa significa? Significa che virtù e conoscenza scompaiono, che viviamo come bruti, come struzzi. Dennis Ross, uomo di governo del mondo democratico americano, conoscitore per esperienza diretta del medio oriente, ha scritto un articolo magistrale sul New York Times per dire l’ovvio: Hamas non può e non deve cavarsela, sarebbe la vittoria del terrorismo e dell’Iran che assembla una vasta alleanza sicaria per annientare Israele, e l’unico modo per impedire la vittoria di quelli del pogrom del 7 ottobre, l’unico modo per respingere l’attentato alla pace di ogni giorno costituito dall’offensiva dell’islam politico-terroristico è che Tsahal entri a Gaza e snidi e elimini gli uomini e le strutture e infrastrutture di comando operazionale di Hamas. Per Ross l’appello al cessate il fuoco, adesso, e la richiesta di tregua, sono parole d’ordine di guerra e di vittoria per chi la vuole, la organizza e le dà il sinistro aspetto di un generalizzato pogrom contro gli ebrei di Israele.
Per accettare questa cosa che era chiara da subito, e che solleva obiezioni di principio e umanitarie in ogni ambiente, e anche tra amici veri di Israele e partigiani della sua esistenza, anche per chi crede nella convivenza possibile con uno stato palestinese una volta che siano riunite le condizioni politiche per realizzarla, gente da non confondere con antisemiti e turbolenti adepti del nichilismo terroristico islamico, per accettarla bisogna fare dei passi che fanno orrore alle coscienze brutalmente umanitarie oggi in palchetto, il cui simbolo potrebbe essere Greta Thunberg. E’ molto facile pensare con compassione al derelitto destino delle popolazioni a Gaza, l’immagine disperante di donne e bambini colpiti dalla reazione bellica di Tsahal, di giovani e uomini e vecchi che vestono abiti civili e in qualche misura sono estranei o anche lontani dalla follia di chi li governa da tanti anni, di chi scava tra loro i cunicoli della morte e della prigionia degli ostaggi razziati, di chi si ripara dietro le scuole, gli ospedali e altri luoghi teoricamente neutrali, secondo il diritto di guerra, per ottenere gli scopi di morte e distruzione che si sa. Le bombe e i tiri di artiglieria, la guerra urbana che mette tutti in pericolo e si presenta come un teatro di tragedia, tutto questo Not In My Name.
Ma il mondo è fatto così, che le cose giuste spesso non sono compassionevoli. Snidare i killer dell’islamismo politico, colpire i terroristi dove si nascondono e contrattaccano dopo aver fatto quello che hanno fatto a gente inerme, mettere in pericolo centinaia di migliaia di riservisti, il fiore del tuo paese, e la tua economia, il tuo benessere, cercare con tutti i rischi di una campagna sul terreno di risparmiare le vite dei civili e la vita degli ostaggi, per conseguire l’obiettivo della sicurezza e della pace, per costruire il famoso e celebratissimo “mai più”, ecco che questo non può essere fatto In My Name. Si nasconde la testa sotto la sabbia, ci si inoltra nei tunnel dei predoni, incuranti della vittoria della morte travestita da umanitarismo, si sceglie di gridare in piazza, sapendolo coscientemente o no, “ancora e sempre”. Le piazze per il cessate il fuoco sono le piazze dei guerrafondai.